
Una lista che comprende nomi storicizzati come Christian Boltanski, Bruce Nauman, Ion Grigorescu o Alberola e punteggiata dall’indispensabile parata del mainstream artistico, nomi che si ripetono nelle compilations curatoriali che si rispettano e che nell’opus di Inside diventano ottimi turnisti da studio a supporto della realizzazione del concept. Artisti di cui si conosce il percorso come Ryan Gander e Mark Manders, passando per Peter Buggenhot e Dove Allouche in qualche “già visto” al Palais.
La programmazione si apre poi alla geografia della moda di una rinnovata attenzione all’arte dell’ex Europa dell’Est e dell’odierna Russia: Valia Festov, Andra Ursuta o Ando Wekua, anche se provengono da diaspore newyorkesi e berlinesi, sono associabili a Mike Nelson e Nathalie Djurberg & Hans Berg per creare l’indispensabile mastice di realizzazioni verosimilmente site specific che tengano.

Le capanne domestiche ed effimere costruite dai bambini e riprodotte in marmo candido da Ryan Gander, sono un transfert di arte alta, come le cataste di detriti di luna park, caravan e strutture gonfabili di Peter Buggenhot rimandano inconsciamente alla collisione tra arte e divertimento. Lo tsunami parodistico che ha investito il gioco concettuale dell’arte nei decenni scorsi è residuale alla processualità di questi lavori e in questo tornado di orrore, desiderio, piacere, inquietudine non c’è davvero una via di uscita.
Isole di purezza appaiono, nel loro candore, gli alberi di Berdaguer & Pejus che nascono dai test psichiatrici per determinare le origini dei traumi o delle patologie e incarnano una natura interiore e una via terapeutica delle forme.


Peculiare è il lavoro di Valia Fetisov una installazione di esperienza, nel quale dopo aver attraversato la soglia di una stanza si è imprigionati da una porta automatica che si chiude alle nostre spalle. È col vuoto che ci si confronta, in compagnia di un monitor e una sedia. Trovare una via d’uscita, non è semplice, difficile credere che solo l’immobilità assoluta possa liberarci da questa condizione claustrofobica. Stanze da panico forse riempite di figure d’immobilità dove nemmeno la metamorfosi o la buffa e laida animalità del corpo umano dei film d’animazione di Djurberg&Berg ci confortano nella nostra umanità.
Una specie di destino da caccia al topo, come suggerisce il video Berek di Artur Zmijewski girato in una cantina e in una camera a gas di un campo di sterminio, dove sembra che a tutti sia scivolata di mano la situazione.
Quale sarà il media giusto per occuparsi di soggetti così sensibili o per rilevare le sfide nascoste nelle zone tabu dell’inconscio? Quali costruzioni, quali narrative abbiamo a disposizione?
Probabilmente solo la preghiera, come nei silenziosi rituali di Araya Rasdjarmmrearnsook che si occupa di vegliare le salme dei morti non reclamati alla morgue di Chiang Mai. Tutto questo sentimento di inquietudine sembra appunto cercare nuove strutture, a cui non è bastata la ricchezza del repertorio dell’arte d’avangardia, l’architettura modernista o l’immaginario della science fiction come suggerito dal lavoro di Andro Wekua.

Poi ancora il cinema che precipita però nel nonsense dell’esperienza fantasmatica insita nel dispositivo cinematografico come per Jusper Just con il suo, ancora convincente, This nameless spectacle (2011). È un lunghissimo viaggio di seduzione e di distanza tra due persone, un gioco di voyerismo tra lo sguardo sensuale di una donna su una sedia a rotelle e uno stalker urbano in spazi che si vorrebbero naturali ma intossicati dalla tensione sentimentale.
Che sia la violenza sottesa o lo stato traumatico della crisi, in tutto il materiale esposto sembra convocata più la risposta filosofica che una ricerca estetica coerente.

