Inside

“Inside”, la grande mostra collettiva ospitata al Palais de Tokyo a Parigi, è un viaggio introspettivo metaforicamente rappresentato dallo spazio architettonico del Palais.

Inside, Peter Buggenhout On Hold, 2014. Photo André Morin
Con il titolo monotematico Inside, che è contemporanemente viaggio introspettivo e periplo architettonico della sua taglia monumentale, il Palais de Tokyo si lancia nella nuova pachidermica avventura espositiva per l’autunno-inverno con l’ennesimo regesto totalizzante di progetti, commissioni e interventi site-specific. Oramai questo discutibile format è diventato il marchio di fabbrica della gestione Jean de Loisy.
Inside, Christophe Berdaguer et Marie Péjus, E.17 Y.40 A.18 C.28 X.40 0.13,5 (détail), 2014. © ADAGP, Paris 2014
Inside, Palais de Tokyo, 2014. In apertura: Peter Buggenhout, On Hold, 2014. Qui sopra: Christophe Berdaguer et Marie Péjus, E.17 Y.40 A.18 C.28 X.40 0.13,5 (détail), 2014. © ADAGP, Paris 2014

Una lista che comprende nomi storicizzati come Christian Boltanski, Bruce Nauman, Ion Grigorescu o Alberola e punteggiata dall’indispensabile parata del mainstream artistico, nomi che si ripetono nelle compilations curatoriali che si rispettano e che nell’opus di Inside diventano ottimi turnisti da studio a supporto della realizzazione del concept. Artisti di cui si conosce il percorso come Ryan Gander e Mark Manders, passando per Peter Buggenhot e Dove Allouche in qualche “già visto” al Palais.

La programmazione si apre poi alla geografia della moda di una rinnovata attenzione all’arte dell’ex Europa dell’Est e dell’odierna Russia: Valia Festov, Andra Ursuta o Ando Wekua, anche se provengono da diaspore newyorkesi e berlinesi, sono associabili a Mike Nelson e Nathalie Djurberg & Hans Berg per creare l’indispensabile mastice di realizzazioni verosimilmente site specific che tengano.

Inside, Palais de Tokyo, 2014. Sookoon Ang, <i>Exorcise Me</i>, 2013
Inside, Palais de Tokyo, 2014. Sookoon Ang, Exorcise Me, 2013
Il nuovo arriva dalla selezione di una presenza del Sud Est asiatico con Araya Rasdjarmrearnsook o Sookon Ang che fortunatamente offrono ad uno spigoloso testo curatoriale la via di fuga attraverso una meditazione sull’odierna eutanasia percettiva, un mood che pervade l’intera mostra. Anche se l’assunto è dichiarato – l’interno è il luogo privilegiato per l’apparizione di ogni tipo di immagini – è difficile decriptare quanto il percorso sia piuttosto introspettivo-decostruttivo o di fatto riempito di proiezioni spirituali.

Le capanne domestiche ed effimere costruite dai bambini e riprodotte in marmo candido da Ryan Gander, sono un transfert di arte alta, come le cataste di detriti di luna park, caravan e strutture gonfabili di Peter Buggenhot rimandano inconsciamente alla collisione tra arte e divertimento. Lo tsunami parodistico che ha investito il gioco concettuale dell’arte nei decenni scorsi è residuale alla processualità di questi lavori e in questo tornado di orrore, desiderio, piacere, inquietudine non c’è davvero una via di uscita.

Isole di purezza appaiono, nel loro candore, gli alberi di Berdaguer & Pejus che nascono dai test psichiatrici per determinare le origini dei traumi o delle patologie e incarnano una natura interiore e una via terapeutica delle forme.

Inside, Palais de Tokyo, 2014. Numen/For Use, Tape Paris, 2014
È difficile pensare che anche le belle operazioni come quelle sullo spazio con le grandi strutture avvolgenti di Numen/For Use o il penetrare al di là degli specchi di Marcius Galan non siano che un forzato il gioco di dematerializzazione. Lo spazio che si apre davanti ai nostri occhi ci suggerisce una immersione ancora più avventurosa negli spazi del Palais, siamo più in sintonia con l’architettura che con la sfida percettiva.
Bellissimo è l’invito di Nauman ad abbandonare le stanze, Get out of this room, un lavoro storico che stona in purezza con il meccanismo di attrazione e repulsione in opera in altri lavori, come il rifugio di Stephane Thidet. Una vera capanna in legno in cui piove a dirotto ma proprio all’interno. Fuori si è salvi, un gioco a testa o croce dove ogni opera sembra nascondere un abisso con cui o l’esperienza fisica o la nostra immaginazione devono ossessivamente confrontarsi.
Inside, Stéphane Thidet, Sans titre (Le Refuge), détail, 2007
Inside, Palais de Tokyo 2014. Stéphane Thidet, Senza titolo (Le Refuge), dettaglio, 2007

Peculiare è il lavoro di Valia Fetisov una installazione di esperienza, nel quale dopo aver attraversato la soglia di una stanza si è imprigionati da una porta automatica che si chiude alle nostre spalle. È col vuoto che ci si confronta, in compagnia di un monitor e una sedia. Trovare una via d’uscita, non è semplice, difficile credere che solo l’immobilità assoluta possa liberarci da questa condizione claustrofobica. Stanze da panico forse riempite di figure d’immobilità dove nemmeno la metamorfosi o la buffa e laida animalità del corpo umano dei film d’animazione di Djurberg&Berg ci confortano nella nostra umanità.

Una specie di destino da caccia al topo, come suggerisce il video Berek di Artur Zmijewski girato in una cantina e in una camera a gas di un campo di sterminio, dove sembra che a tutti sia scivolata di mano la situazione.

Quale sarà il media giusto per occuparsi di soggetti così sensibili o per rilevare le sfide nascoste nelle zone tabu dell’inconscio? Quali costruzioni, quali narrative abbiamo a disposizione?

Probabilmente solo la preghiera, come nei silenziosi rituali di Araya Rasdjarmmrearnsook che si occupa di vegliare le salme dei morti non reclamati alla morgue di Chiang Mai. Tutto questo sentimento di inquietudine sembra appunto cercare nuove strutture, a cui non è bastata la ricchezza del repertorio dell’arte d’avangardia, l’architettura modernista o l’immaginario della science fiction come suggerito dal lavoro di Andro Wekua.

Inside, Palais de Tokyo, 2014. Mark Manders, Argile Silencieuse (détail), 2014

Poi ancora il cinema che precipita però nel nonsense dell’esperienza fantasmatica insita nel dispositivo cinematografico come per Jusper Just con il suo, ancora convincente, This nameless spectacle (2011). È un lunghissimo viaggio di seduzione e di distanza tra due persone, un gioco di voyerismo tra lo sguardo sensuale di una donna su una sedia a rotelle e uno stalker urbano in spazi che si vorrebbero naturali ma intossicati dalla tensione sentimentale.

Che sia la violenza sottesa o lo stato traumatico della crisi, in tutto il materiale esposto sembra convocata più la risposta filosofica che una ricerca estetica coerente.

Questo depotenzia anche le opere più belle e dure come quella di Adra Ursuta, con la sua installazione che diventa una macchina celibe. Niente di più odioso della morte per lapidazione delle donne nell’immaginario contemporaneo misto di sentimenti antiislamici e di paure epocali, eppure davanti a questa macchina che tira pietre e al muro con residui di piastrelle e lunghe capigliature, ci viene richiesto di pensare ai miti fondanti delle città mediorientali con la pratica di murare vive le persone per fortificarne le difese.
Inside, Palais de Tokyo, 2014. Veduta dell'installazione di Nathalie Djurberg e Hans Berg
Il toccante coro di ex-minatori del duo Karikis & Orlow che introduce l’esposizione ci aveva avvertito del gioco di ribaltamento in atto all’interno – inside – nello scavo introspettivo che per l’appunto offre possibilità plastiche ma cerca di livellare le singole identità. Lo spettatore, proprio come questi sopravviventi riproducono il suono della miniera, lavora allo scavo dell’esperienza a patto di condividere la logica e i valori del contemporaneo come luogo di memoria o di storia, altrimenti l’intera operazione rischia di fallire.
Meglio godere dell’algida tautologia della personale di David Maljkovic nel seminterrrato. Nelle sue tattiche di sconfinamento e nel suo futurismo retroattivo almeno il decalage tra tempo ed esperienza giocano a favore della vera arte, forse piu fredda ma non per questo meno appagante.
© riproduzione riservata
Inside, Palais de Tokyo, 2014. Andro Wekua, da sinistra a destra: Untitled, 2014; Untitled, 2011
Inside, Palais de Tokyo, 2014. Andro Wekua, da sinistra a destra: Untitled, 2014; Untitled, 2011

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