Robert Overby

La mostra dallo sguardo retrospettivo che dovrebbe raccogliere il meglio del lavoro di Robert Overby alla GAMEC di Bergamo ha certamente il merito di non farne più un’ombra in un angolo.

Robert Overby
Accostarsi oggi all’opera di Robert Overby è come scoperchiare uno scatolone di polverose decorazioni natalizie trovato in soffitta. La sua storia narra infatti di un uomo che è rimasto per tutta la vita col naso schiacciato contro il vetro dell’arte, pur essendo stato uno dei pochi artisti a non aver aderito a un qualche sistema monocorde di pensiero estetico (minimalismo, antiform, post pop, postmoderno), riuscendo a mantenere un clima senza l’aiuto di un marchio di fabbrica.
Vista della mostra "Robert Overby – Opere 1969-1987" alla GAMeC, Bergamo, 2014. Photo: Antonio Maniscalco. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo
Per oltre vent’anni (dal 1969 fino alla sua scomparsa nel 1993), Overby ha indossato, con camaleontica facilità e vistosi mutamenti di taglia, l’abito dello scultore di spazi domestici dalle forme liquefatte, del pittore di volti larghi dal maquillage sovraccarico, del restauratore di dipinti antichi, del collagista di orge decisamente selvagge, imbastendo un repertorio mai sciapo per le troppe ripetizioni. Cavaliere del cangiante, raramente sembra essere stato attratto da materiale che non tendesse a cambiare come i serpenti la muta: il volto degli edifici, l’identità sessuale e di genere, la luce, l’io, il cielo, le nuvole. Il lattice, la gomma, la plastica.
Vista della mostra "Robert Overby – Opere 1969-1987" alla GAMeC, Bergamo, 2014. Photo: Antonio Maniscalco. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo
Scrive Roland Barthes: “Malgrado i suoi nomi di pastore greco, (Polistirolo, Fenoplasto, Polivinile, Polietilene), la plastica è essenzialmente una sostanza alchemica. È l’idea stessa della sua infinita trasformazione, è, come indica il suo nome volgare, l’ubiquità resa visibile; e proprio in questo, d’altra parte, essa è una materia miracolosa: il miracolo è sempre una conversione brusca della natura. La plastica resta tutta impregnata in questa scossa: più che oggetto essa è traccia di un movimento”. Il che è esattamente ciò che Robert Overby non ha mai smesso di inseguire. Se chiudo gli occhi e me lo figuro, vedo un muscoloso San Bartolomeo assiso su una nuvola in silicone come un cardinale di El Greco, con la pelle appoggiata sulle spalle come un vuoto baccello – e poco importa se la cotica scuoiata sia la sua, quella di un edificio a Los Angeles o il consunto costume in latex appena usato in una pratica bondage. Ciò detto, questa mostra dallo sguardo retrospettivo che dovrebbe raccogliere il meglio del lavoro di Robert Overby, fortemente voluta dal curatore Alessandro Rabottini e ospitata dalla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo (e da altre tre istituzioni europee: il Centre d’Art Contemporain di Ginevra, la norvegese Bergen Kunsthall e Le Consortium di Digione), ha certamente il merito di non farne più un’ombra in un angolo.
Vista della mostra "Robert Overby – Opere 1969-1987" alla GAMeC, Bergamo, 2014. Photo: Antonio Maniscalco. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo
In una fotografia di una quarantina di anni fa, Overby spiana lo sguardo all’obiettivo attraverso il vetro smerigliato della porta del suo studio al 4540 di Hollywood Boulevard, Los Angeles. Il campo di bianchi e neri incornicia l’immagine spellata di un giovane piuttosto attraente, dalla corporatura massiccia come un vaso di terracotta e dall’aria amabile. Indossa una t-shirt e un cappellino da baseball come un qualsiasi ragazzo appena uscito dal college. È il 1971, e da qualche tempo, non traendo grande soddisfazione dalle sue fatiche come progettista grafico, che pure gli valsero diversi allori (il logotipo che disegnò per la Toyota è in uso ancora oggi), aveva deciso di dar sfogo alle sue molte abilità extracurricolari. Dipingere gli veniva naturalmente, come fare il doppio nodo delle scarpe, ma in quei primi anni Settanta gli prese la smania di sperimentare su scale diverse con duttili sostanze vischiose allora nuovissime che avrebbero formato il suo gusto negli anni a venire. Come un archeologo di un’altra civiltà, aveva iniziato a fare il calco di qualunque oggetto gli capitasse sotto mano, riversandovi sopra una glassa di lattice che tutto copriva come un sudario: fazzoletti da cerimonia, calzini, appendiabiti, inferriate, persino l’intera facciata di un emporio a West Hollywood e la cucina pregna dell’aroma di tabacco della casa del fratello Paul a Venice. Come se di lì a poco il mondo dovesse squagliarsi come gli orologi molli di Dalì.
Vista della mostra "Robert Overby – Opere 1969-1987" alla GAMeC, Bergamo, 2014. Photo: Antonio Maniscalco. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo
Proprio nell’estate di quell’anno, Overby riuscì nella sua impresa più ardua ribaltando come un guanto l’architettura di un albergo fatiscente sopravvissuto a un incendio che ne aveva smorzato le voci in un tetro silenzio, registrando tutti i segni che il tempo vi aveva impresso. Delle cinerognole rovine e delle ultime braci della Barclay House, un tempo fluttuante nel cicaleccio della veranda e nell’odore del sabato sera, oggi non resta che un’infornata di gibbosi calchi in lattice di porte, pareti, pavimenti, stipi, flaccidi come le guance di un bulldog e raggrinziti come la pelle accapponata per il freddo. Un quadro confuso e spettrale di finestre diroccate, vuote come orbite senz’occhi, e muri contorti in una deforme profondità, su cui lo sguardo si avviluppa come un rampicante.
Vista della mostra "Robert Overby – Opere 1969-1987" alla GAMeC, Bergamo, 2014. Photo: Antonio Maniscalco. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo
Ciò che Overby realizzò negli anni successivi è tutt’altra tasse de thé. Semplicemente, uscì dalla porta del minimalismo barocco, o noir, come lo chiamava lui, per fare il suo ingresso nella cosiddetta pittura post pop. Come passare dalla bottega del barbiere alla fumeria d’oppio. Dal chili in scatola a una succulenta banana split. Indossati gli abiti smessi del pittore, per tutti gli anni Ottanta Overby intingerà il pennello in un etereo sogno di erotismo, scodellando una produzione ubriaca di schiumanti dipinti di stangone dalla carrozzeria miracolosa, completamente denudate o strizzate in aderenti indumenti sadomaso in lattice nero, su cui aleggia l’ineludibile pressione dell’intimità.
Vista della mostra "Robert Overby – Opere 1969-1987" alla GAMeC, Bergamo, 2014. Photo: Antonio Maniscalco. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo
Quadri di grande taglia e pieni di carne, dall’apparenza torbida e fioccosa. Volti incipriati e verniciati, enormi labbra tumide, scampoli di corpi liquorosi e colmi di desiderio, difficili da inquadrare in una cornice che non abbia la forma del buco della serratura. Un seltz inesauribile di ferormoni e atteggiamenti artificiosi, dove la messinscena sexy dell’adescamento stiracchia e lacera il significato di corpo inteso come luogo sicuro dell’identità, per estenderlo a un ambito ambiguo e maldefinito. Il corpo – sembra dire l’ultimo Overby – è come una casa piena di spifferi, senza porte né finestre. E l’identità una pelle scura sotto cui si nasconde una giungla, la soglia verso segrete visioni.
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Vista della mostra "Robert Overby – Opere 1969-1987" alla GAMeC, Bergamo, 2014. Photo: Antonio Maniscalco. Courtesy GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo


Fino al 27 luglio 2014
Robert Overby: Opere 1969-1987
GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo

 

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