Che alla base dell'opera di Prieto ci sia una qualche forma di critica è indubbio. Non si spiegherebbe altrimenti il vantaggio di occupare l'imponente sala che fronteggia le immense e magnifiche Torri di Kiefer con una selezione di ritrovati tutto sommato oggettivamente piuttosto brutti (una betoniera, un autobus, una catena di sfere racimolate chissà dove, un vecchio motore, una balla di fieno, dei calzini anonimi neri). E indubbia è l'"immediatezza visiva" che reclama in grassetto anche il comunicato di presentazione della mostra; anche se, com'è ovvio, più che gli oggetti in sé, è la loro delocalizzazione a sortire un "effetto wow". Meno adamantino invece è a chi o a che cosa si rivolga la poetica denunciatoria dell'artista cubano. Con Apolitical del 2001, per esempio, quando Prieto aveva "decolorato" 30 bandiere di Paesi appartenenti all'ONU, issandole in un'inedita veste bianco e nera prima in Irlanda, poi in Italia e in Francia, oltre all'"immediatezza visiva" (sì, ma anche alla bellezza formale), si poteva intuire il tenore della polemica politica contenuta nel gesto e i suoi destinatari. Lo stesso è valso per altre azioni provocatorie che hanno scandito la partecipazione dell'artista a Fiere e Biennali in tutto il mondo e con cui se l'è presa di volta in volta con il sistema economico, quello alimentare, l'ambientale, il culturale, le istituzioni pubbliche e private, e i loro cortocircuiti, sempre con un sottile ghigno sornione, con più arguzia che polemica.
Che alla base dell'opera di Prieto ci sia una qualche forma di critica è indubbio. Non si spiegherebbe altrimenti il vantaggio di occupare l'imponente sala con una selezione di ritrovati tutto sommato oggettivamente piuttosto brutti.