A 23 anni dall'edizione del '73, nel 1996 la Biennale torna finalmente parte del palinsesto delle Biennali internazionali. La vicenda della città che da sempre la ospita, Carrara, si snoda attorno a due intrecciati immaginari, quello dell'anarchismo e quello legato all'estrazione del marmo. È qui che nei primi del Novecento le lotte anarco-sindacaliste dei cavatori, guidati dall'anarchico Alberto Meschi, portarono la giornata lavorativa, per la prima volta in Italia, a sei ore e mezzo. Ma da queste montagne squartate e sfogliate, ancora vive nonostante secoli di escavazione, passarono anche Michelangelo e Canova. Qui venne scolpito e trasportato a mare l'obelisco che nel '32 venne eretto al Foro Italico di Roma, in omaggio a Mussolini. Ancora oggi la città vive nella perpetuazione di un mito e di uno statement identitario, che la Biennale ha provato a rimettere in discussione, interrogando il topos della forma-monumento per aprirsi, poi, a domande di ordine più generale sul futuro della scultura.
Una delle caratteristiche della mostra, secondo una strategia già seguita nelle recenti edizioni di Manifesta e della Biennale di Berlino 2006, sta nella scelta dei luoghi. Un pulviscolo di spazi che disegna una geografia interna ai siti dismessi, legati alla lavorazione del marmo. Luoghi che mostrano la vita ma anche il crepuscolo, avvolto nella polvere bianca sollevata dai residui della lavorazione, di un'industria che ha segnato la storia di una città. Carrara vanta una fiera tradizione artigianale: scalpellini, scultori, incisori, quasi sempre fedeli a un'idea classicheggiante di scultura, che durante la Biennale, tuttavia, si sono messi al servizio di grandi nomi internazionali come Cai Guo-Qiang, Antony Gormley, Paul McCarthy.
A loro Fabio Cavallucci, il curatore della Biennale, ha rivolto una domanda: quale futuro per la scultura e il monumento? La stessa che, poi, è stata posta agli imprenditori, ai lavoratori del marmo e all'opinione pubblica locale, che per mesi si è divisa, per esempio, intorno alla proposta di Cattelan di so stituire la statua di Mazzini, in piazza dell'Accademia, con la copia di una statua di Bettino Craxi rinvenuta in un laboratorio. Ma nella tarda postmodernità, dopo il crollo del Muro e l'abbattimento della statua di Saddam, che cosa resta del monumento? Chi ha contribuito a questo immane mutamento di fase, Mikhail Gorbaciov, intervistato da Cavallucci sulle pagine culturali del Times, la pensa così: "Mai applaudito la distruzione dei monumenti. È una sciocchezza antistorica che equivale a pretendere di cancellare il passato. Il passato non si cancella nella memoria di chi lo ha vissuto o subito".
Oggi la forma- monumento sembra essere scomparsa a favore delle grandi architetture, delle opere pubbliche, dei progetti più ambiziosi di riqualificazione urbana. Nei Paesi dell'Est, dov'è ancora viva l'impressione accesa dall'abbattimento dei simboli della dittatura, il monumento conserva la sua dimensione aulica e celebrativa. Si pensi a Deimantas Narkevicius, che ha esortato lo spettatore ad ascoltare la voce di un anarchico in prigione. Timbri che toccano il cuore, mentre dall'altra parte del muro da una finestra filtrava un raggio di luce. O a Nemanja Cvijanovic, l'artista croato da sempre interessato all'esplorazione del passato socialista, che ha presentato un monumento in forma di musica: un carillon amplificato e azionato dallo spettatore, che rimanda le note dell'Internazionale. E a raccontare la normalità come atto quotidiano, i video di Artur Zmijewski, che ha seguito la giornata di due operai del marmo.
Più ci allontaniamo dall'Est Europa, più il monumento viene demonumentalizzato affermandosi, semmai, come gesto poetico, antiscultureo. Come nel lavoro del giovane Giorgio Andreotta Calò, che ha estratto con l'antico metodo dei cavatori un blocco di marmo, monumento ai caduti delle cave, per poi installarlo all'interno dell'atmosfera ascetica di una chiesa del Settecento abbandonata. Questo sentimento di catarsi, di risoluzione dell'idea di monumento, ci porta al lavoro di Rirkrit Tiravanija, che ha trasformato una piazza della città in un campo di relazioni umane: un maxischermo in marmo, dove da un lato sono proiettati film storici della lavorazione della pietra, dall'altro i mondiali di calcio. Ma osservando la maestà delle montagne, la spoliazione dovuta a secoli di scavo, i ravaneti bianchissimi che riverberano la luce del Tirreno, qualcuno ha pensato di riportare a casa ciò che nei secoli è stato strappato. Cyprien Gaillard ha infatti deciso di fare omaggio alle montagne di Carrara, ritrovando una delle mattonelle di marmo che, fino all'11/9, rivestivano la lobby del World Trade Center. Una promessa che resterà per sempre lì, interrata nella piazza sul punto più alto della città, a orientare lo sguardo sul bagliore forte del paesaggio e della storia.