Anthony McCall

Il rapporto tra spazio e luce è ancora molto indagato, come dimostra il lavoro di Anthony McCall. Testo di Francesca Bonazzoli.

È con lo spazio che l'arte occidentale ha ingaggiato da secoli la lotta più poderosa, sia nel tentativo di riprodurlo illusionisticamente su un muro o una tela bidimensionali, sia nella sfida titanica di superarlo, sfondandone i limiti, a partire dai soffitti barocchi fino al gesto radicale dei tagli di Lucio Fontana.

L'invenzione della prospettiva matematica, nel XV secolo, è stata il primo grimaldello con cui la pittura è riuscita a insinuarsi nel meccanismo dell'illusione spaziale, ma il trucco si rivelò ben presto troppo meccanico e ingenuo. Nel breve giro di qualche decennio, gli artisti più geniali si accorsero che la luce poteva essere un espediente ben più idoneo e alla fine del XVI secolo Caravaggio ne rivelò a tutti la potenza. Se l'arte è illusione, allora la luce dava l'illusione perfetta. Non c'è profondità che le possa resistere, come capirono bene anche i maestri olandesi, da Vermeer a Rembrandt che proprio con la luce riuscirono a creare la più alta magia degli interni.

Tuttavia, sebbene sia un tema antico, quello del rapporto tra spazio e luce è ancora molto indagato: uno degli artisti di oggi che più ci si è votato è l'inglese Anthony McCall (classe 1946, ma residente a New York dal 1973), del quale l'Hangar Bicocca di Milano mette in scena fino al 21 giugno la più grande mostra realizzata dall'artista, a cura di Serena Cattaneo. Le enormi dimensioni dell'Hangar (che accoglie in permanenza anche le magnifiche torri del tedesco Anselm Kiefer), e cioè un corridoio lungo oltre novanta metri e alto tredici impossibile da trovare in alcun altro spazio espositivo, hanno permesso a McCall di installare sette proiettori che formano altrettanti coni di luce diffusa dall'alto. A terra, a livello del pavimento, alcune macchine nascoste sparano una nebbia che, illuminata, assume la consistenza di un diaframma tridimensionale così che per entrare sotto il fascio luminoso si ha la sensazione di dover spostare una tenda o di passare attraverso un muro. La luce del cono si espande e si restringe proiettando sul pavimento bianche linee geometriche disegnate al computer da McCall e in continuo movimento.

Proprio da qui viene il titolo alla mostra, "Breath", ovvero respiro, perché lo spazio si muove attorno al corpo del visitatore avvolgendolo o sfuggendogli. "Quando ho cominciato negli anni Settanta", racconta l'artista, "il mio interesse era rivolto ai fondamentali del cinema. Quello che si vede in un film è sempre successo in un altro momento e in un altro luogo rispetto al tempo reale della proiezione, ma io mi chiedevo se era possibile fare cinema solo nel presente e nello stesso spazio condiviso dagli spettatori. Per questo lavoravo sui meccanismi stessi di proiezione, indipendentemente dalle immagini. Col tempo, poi, mi sono reso conto che il cono di luce del proiettore dava vita a una scultura, un volume di spazio dentro cui potevo rappresentare anche il corpo". E' curioso vedere come l'origine di questi "solid light films" (film di luce solida) sia un tipico esercizio concettuale del cinema strutturalista e d'avanguardia anni '70, e come poi il suo effetto diventi emotivo: la luce che, come per una magia, diventa simile alla materia solida non può che scatenare una reazione di stupore. Il visitatore sperimenta sensazioni fisiche e psichiche totalmente nuove: entrare e uscire dai "muri" di luce dà la sensazione di varcare un limite e una soglia, fra la verità e il sogno, con un corpo che, per incanto, si smaterializza diventando capace di attraversare dimensioni di solito inaccessibili. Ci si può sentire, insomma, degli extraterrestri che passano attraverso la luce, i muri e i confini degli spazi.

È sempre così, quando c'è di mezzo la luce. Anche per il più laico degli artisti, l'americano Dan Flavin, che il padre aveva mandato in seminario da bambino sviluppando in lui un'avversione per la chiesa cattolica mai più superata: nelle sue opere minimaliste, fatte di anonimi tubi al neon prodotti industrialmente, non si può fare a meno di percepire un retrogusto spirituale. "I miei tubi fluorescenti non si sono mai infiammati nella ricerca di un dio", rispondeva Dan Flavin, infastidito da coloro che volevano vedere un significato mistico nella luce delle sue installazioni. Eppure il destino ha voluto che l'ultima opera dell'artista fosse proprio la trasformazione di una chiesa della periferia degradata di Milano – la Chiesa Rossa, realizzata nel 1932 da Giovanni Muzio – in uno spazio spirituale grazie alla luce colorata dei tubi al neon. La dimostrazione che ogni spazio è psichico e ogni luce un disegno dello spazio. Separarli è impossibile. Francesca Bonazzoli

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