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da Domus 908 novembre 2007Se cade un albero in un prato e sono l'unica persona presente, chi altri lo vede? Testo Charles Ray.

Dieci anni fa, mentre guidavo lungo la costa della California centrale, in un prato ai margini della Highway 101 ho scorto un albero caduto. Immediatamente ho sentito un forte richiamo. Non solo il tronco era bellissimo, ma, ai miei occhi, si fondeva perfettamente col prato su cui era disteso. Giaceva al suolo da almeno venti o trent'anni, e gli effetti del tempo, degli insetti, delle radiazioni solari e della forza di gravità erano evidenti. Il tracollo finale sembrava, se non imminente, molto vicino. Le estremità del tronco erano perfettamente dettagliate e mi hanno guidato verso l'incavo che, in luogo del midollo, percorreva questa forma in tutta la sua lunghezza. La parte centrale del fusto era molto semplice, in quanto la corteccia si era staccata ed era tornata nel terreno da molto tempo. Mentre il lento processo di disfacimento dell'albero avanzava, erbacce e frammenti di corteccia marcescente formavano un soffice letto che cullava e sosteneva il peso e la lunghezza dell'albero. Le crepe e le fenditure che percorrevano la sua forma in senso trasversale erano l'effetto visibile delle forze ancora al lavoro all'interno del tronco stesso. Ero rapito, non solo dall'albero e dal suo lento ritorno alla terra, ma anche dal prato come spazio pittorico che incorniciava lo svolgersi di questa vicenda. Si trattava della prima di molte visite che, negli anni seguenti, avrei effettuato a quel luogo.

Mi sentivo ispirato a produrre una scultura, ma, tutto preso da quanto era dinanzi ai miei occhi, non avevo idea di quel che stavo osservando. Come dare inizio a un progetto del genere? L'albero risultava perfetto lì, al suo posto, e spostarlo significava distruggerlo. Rimuoverlo, inoltre, voleva dire troncare il suo rapporto col contesto circostante, quel rapporto a cui si doveva la sua potenza visuale. E che materiale usare per fare di questo tronco una scultura? Dove collocare l'elemento portante, il cuore dell'opera? Non si trovava forse nel rapporto dell'albero con il prato e il terreno sul quale era caduto? Ho approfittato delle mie visite al sito per una serie di escursioni a piedi nell'entroterra della costa centrale, nel corso delle quali ho studiato numerosi altri tronchi. Col tempo, mi sono reso conto di non essere tanto interessato agli alberi in sé quanto a quello specifico esemplare e alle forze visive sprigionate dalla sua forma. A un certo punto ho deciso che il nucleo poteva essere costituito dal suo pneuma, termine greco per respiro, soffio vitale. Ho deciso allora che avrei realizzato una grande struttura pneumatica, una scultura gonfiabile del mio albero. Alle pressioni che stavano portando il tronco al collasso si sarebbe così contrapposto l'ottimismo della pressione dell'aria. Ma dopo aver fatto visita a una serie di aziende che producono strutture gonfiabili di grandi dimensioni ho constatato che sagomare esattamente la forma avrebbe comportato un'indesiderata complessità della superficie. Poi, di colpo, ho capito che il soffio vitale della scultura si sarebbe manifestato nell'atto stesso di scolpire. Produrre una scultura in legno della pianta partendo dal suo interno e muovendomi verso l'esterno avrebbe creato una traiettoria di vita e volontà capace di trasmettersi a questo grande albero caduto. Così ho fatto ritorno al prato con numerosi amici, qualche camion e una buona sega a nastro, e in due settimane ho rimosso l'albero pezzo per pezzo, trasportando i vari segmenti nel mio studio a sud di Los Angeles, a centocinquanta chilometri di distanza. Una volta lì, l'albero e la visione originale della sua posizione nel prato risultavano totalmente smembrati, poiché il tronco si trovava sparso in centinaia di pezzi sul pavimento in cemento del mio studio. Con una squadra di assistenti ho iniziato a produrre dei calchi di ogni singolo pezzo, poi dai calchi ho ottenuto delle copie in fibra di vetro: alla fine, mi sono trovato con un enorme puzzle in fibra di vetro del tronco originale. Dato che le parti potevano essere unite in un unico modo, con un po' di tempo e molta attenzione ho finito per avere una replica esatta sia della forma interna sia di quella esterna.

Infine, questo tronco in materiale sintetico è diventato un bozzetto tridimensionale che ho spedito a Osaka, dove il maestro carpentiere Yaboku Mukoyoshi e i suoi aiutanti hanno creato una versione scultorea reale, in cipresso giapponese, della mia visione originale. Ho scelto un carpentiere giapponese perché in Giappone c'è la tradizione di copiare oggetti che non possono essere restaurati. Per esempio, quando un vecchio tempio buddista non può più essere conservato, viene rifatto tale e quale. Nel loro contributo al progetto, il signor Mukoyoshi e i suoi apprendisti hanno mostrato grandi capacità e pazienza. Ho fatto loro visita spesso, e col passare degli anni il progetto ha iniziato a diventare parte del mio modo di vivere, tanto che mi è stato molto difficile accettare di doverlo completare e lasciarlo andare in giro per il mondo. Quando ho chiesto al signor Mukoyoshi come si sarebbe comportato il legno nel corso del tempo, mi ha detto che non avrebbe avuto problemi per quattrocento anni, poi sarebbe iniziata una fase critica che lo avrebbe portato, nel corso di duecento anni, a screpolarsi e fessurarsi, per passare infine a un ultimo periodo di deterioramento, un lento declino finale di altri quattrocento anni. Così, quando ho capito che quel legno, come il tronco originale, aveva una vita propria, sono finalmente riuscito ad allentare i legami col mio progetto e a lasciarlo andare, nella speranza che portasse un soffio di vita nel mondo circostante.

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