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Le sorprendenti architetture brutaliste del Togo

Il paese africano ospita edifici moderni e brutalisti poco noti, ma dall’incredibile carisma: un tratto comune con quello che è successo in altre regioni dell’Africa e che stiamo riscoprendo.


Sono sorprendenti e sconosciute le architetture brutaliste del Togo. Si concentrano soprattutto nella capitale Lomé e risalgono ai due-tre decenni successivi alla liberazione dall’invasore francese, nel 1960. Non sono state intercettate neppure dalla bella pubblicazione di Manuel Herz sull’African Modernism – un modernismo che era in gran parte tardo, massiccio e di béton brut – edita da Park Books nel 2015 e che esplorava Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Kenya e Zambia. Riprendendo il sottotitolo del volume, anche quella togolese è un’“Architecture of Independence”, ossia una genealogia di edifici che sono al tempo stesso simbolo e infrastruttura di uno stato finalmente autonomo.

L’occasione della loro riscoperta, che segue un oblio immeritato – ma che pare quasi fisiologico nei cicli della critica –, è la partecipazione del paese africano alla 19. Biennale di Architettura di Venezia, sua prima apparizione in laguna. Annidata nelle calli retrostanti il grande recinto dell’arsenale, la mostra togolese s’intitola  “Considering Togo’s Architectural Heritage” e descrive una serie di architetture precedenti o successive ai lunghi secoli della colonizzazione, tra il XVII e il XX. Il brutalismo post-1960 di Lomé è il baricentro del percorso espositivo ed è rappresentato da tredici edifici istituzionali, in senso lato: banche, hotel, sedi di ministeri e istituzioni pubbliche, mercati e poli fieristici.

Blèce Afoda-Sebou, Marché de Hédzranawoé, 1985-1988. Foto Studio NEiDA

Le architetture di Lomè non sono uniche e questo le rende ancora più interessanti, perché rappresentative di temi di più ampio respiro. Come altri stati suoi “coetanei”, il Togo del secondo Novecento si affaccia sulla scena dell’architettura internazionale come un contesto ricco di tradizioni, ansioso di definire le proprie specificità, ma anche ricettivo di modelli estetici e spaziali che circolano attraverso il globo. I brutalismi africani, compreso quello togolese, si nutrono proprio di un processo di dialogo e ibridazione tra locale e globale, nazionale e International (Style), che accompagna la ricerca di una condizione di “modernità” che sia finalmente endogena e non più imposta dall’esterno. È un percorso ricco di contraddizioni, che si appoggia e si appropria anche di tecnologie, competenze e soluzioni importate dal mondo occidentale.

La varietà delle architetture mostrate a Venezia testimonia bene del carattere esplorativo, di ricerca, che è proprio dei cantieri dell’epoca. In parallelo, le origini dei loro autori confermano la persistenza di legami profondi con l’ex-dominatore francese, ma suggeriscono anche l’esistenza di una mobilità culturale e professionale alla scala regionale. L’Hotel 2 Février (1980-1981) di Comianos Agapitos (greco-francese) e Franck Christian Diego Anthony (togolese) è un asciuttissimo e modernissimo parallelepipedo con le facciate lunghe leggermente incurvate e vetrate, spiazzante perché sintetico e astratto, nel paesaggio incrementale di Lomé.

Banque Ouest Africaine de Développement (Boad). Foto Studio NEiDA

Altri edifici propongono forme più evidenti e raffinate di dialogo tra tecnologie moderne e vernacolo locale. Il senegalese Pierre Goudiaby Atepa allunga tra le due torri dell’Economic Community of West African States Bank (1980-1982) un curtain wall dai contorni curvi, che riprende le forme di un balafon, tipico strumento a percussione dell’Africa occidentale. Il tetto della più antica Togolese Union Bank (1967-1969) del francese Georges Coustère (francese) s’ispira invece allo zipki, tradizionale trono togolese, mentre la pianta a trifoglio del Marché Hédzranawoé (1985-1988), del togolese Blèce Afoda-Sebou, allude a un simbolo chiave della femminilità africa per omaggiare le donne che lavorano nel mercato.

Il concetto di “modernismo tropicalizzato” è stato utilizzato in un primo momento per identificare la produzione architettonica sudamericana, e in particolare brasiliana, attorno alla metà del secolo scorso, direttamente influenzata dalla lezione dei maestri europei dell’entre-deux-guerres (Le Corbusier in primis), ma capace di rielaborarne i principi in chiave carioca. Come il suo parente sudamericano, anche il brutalismo togolese è tropicalizzato, nel senso che si arricchisce di dispositivi e dettagli che lo rendono più adatto al difficile clima locale. Lo dimostrano bene l’Hotel de la Paix (1972-197), del francese Daniel Chenut, la cui facciata è scandita da setti strutturali in cemento armato, che sono anche frangisole, e l’Hotel Sarakawa (1975-1980), dell’italiano Eugène Palumbo, le cui aperture orizzontali continue facilitano la ventilazione trasversale.

Banque Internationale pour l'Afrique (Bia), Lomé, Togo. Foto Wody Yawo

La mostra “Considering Togo’s Architectural Heritage” racconta un’Africa di cemento armato, solidissima e monumentale, diversa da quella di terra cruda e paglia che domina nel discorso contemporaneo. È il fermo immagine su un momento di speranza in cui il Togo, come altri paesi vicini, provò a “definire il proprio corso all’interno della più ampia narrazione sulla modernità”. La domanda fondamentale che si pongono i curatori ruota proprio attorno alla questione della specificità e dell’attualità delle architetture esposte: “Cosa possiamo considerare come architettura togolese e cosa possiamo imparare da essa?”. La risposta resta (fortunatamente) aperta, in attesa di studi più approfonditi, magari trasversali a più paesi africani.

Immagine di apertura: Pierre Goudiaby Atepa, Banque d'Investissement et de Développement de la CEDEAO, 1988. Foto Wody Yawo

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