Dentro la Cava Arcari di David Chipperfield, assieme a chi l’ha ideata

Tra pilastri megalitici, geometrie astratte e superfici d’acqua, lo spazio metafisico scavato nella pietra di Vicenza estende la storia del Laboratorio Morseletto che lo ha generato.

Morseletto. È un nome tra i tanti che popolano il nord Italia, il nome di una famiglia di “taiapiere” vicentini, ma anche un nome che mette a sistema una miriade di traiettorie che percorrono tutta la storia recente dell’architettura, del design e dell’arte. Un nome molto più forte di quello della Cava Arcari a Zovencedo, un luogo che peraltro simboleggia ciò che ha consentito a Morseletto di diventare il nome catalizzatore di cui stiamo parlando: la pietra, la pietra di Vicenza – qui bianca – quella che si estrae orizzontalmente a blocchi da sottoterra generando templi ipogei dai soffitti gradonati e dai pilastri megalitici.

Un luogo che oggi rivendica ancora più esplicitamente la sua forza metafisica, con i gradini di un podio progettato da David Chipperfield che si specchiano in un’acqua onnipresente e quasi più visibile all’orecchio che all’occhio; ma anche un luogo che, come tutte le metafisiche programmate alle quali l’architettura ci ha abituato negli anni, acquisisce tutto il suo senso nel momento in cui se ne conosce la storia; e qui la storia ha quel nome con cui tutto si è aperto: Morseletto.

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David Chipperfield Architects, Cava Arcari, Zovencedo, Italia. Foto Marco Zanta

Tre generazioni sempre aggrappate all’arte e all’artigianato allo stesso tempo, i Morseletto hanno dedicato decenni alla lavorazione della pietra, e poi alla trasposizione nel presente di tecniche della tradizione come il marmorino o il terrazzo alla veneziana. Pietro Morseletto già segna questa via studiando scultura a Vicenza e a Brera e poi allargando sempre più la sua attività dalla creazione alla produzione, dallo studio al Laboratorio, che apre nel 1920: le sue commesse sono presto eclatanti, dalla fontana nel giardino all’italiana del magnate Pierre Sommel du Pont in Pennsylvania, ai restauri del Teatro alla Scala bombardato e alle le forniture di statue per i BBPR.

Le generazioni successive – il figlio Paolo e le nipoti Barbara e Deborah – fanno letteralmente esplodere questo elenco, fino ad estenderlo a quasi tutti i nomi dell’architettura, del design e dell’arte che si potrebbero immaginare: una elencazione che potrebbe rischiare di essere noiosa, ma a questo punto a diventare noiosa sarebbe la storia stessa del design contemporaneo. Si parla dei rapporti con Carlo Scarpa per la tomba Brion, dei restauri palladiani come la Rotonda e la Basilica di Vicenza; di collaborazioni diventate amicizie, come quella con Frank O. Gehry – che realizza con Morseletto le superfici della DG Bank a Berlino dopo aver tentato l’impresa anche per la Walt Disney Concert Hall ­– e quella con Alvaro Siza, storie di cene venete che si completavano con partenze per le cave a notte fonda per scegliere pietre, come raccontano le eredi; di momenti di svolta semantica nel design come l’uso che Shiro Kuramata farà del terrazzo veneto da pavimenti negli arredi Kyoto del 1983 per Memphis.

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David Chipperfield Architects, Cava Arcari, Zovencedo, Italia. Foto Marco Zanta

Quella che si costruisce attorno a Morseletto è una galassia di legami che sono prima di tutto personali, e culturali oltre che professionali: mentre la cava di Zovencedo sta lì nella sua collina e produce, Paolo è una figura nodale nel sistema che orbita attorno a Vicenza, e che è fatto di intellettuali, scrittori, artisti ­– Lionello Puppi, Virgilio Scapin, Luigi Meneghello – e immancabilmente architetti. Il Laboratorio poi partecipa a eventi di architettura e spesso li ospita: premi come DedaloMinosse e il premio Barbara Cappochin, con le mostre dedicate a Kengo Kuma, Zaha Hadid, poi Siza e Souto de Moura.

Fino a che nella cava di Zovencedo, alla fine dismessa, non viene allestito nel 2007 lo spettacolo di Marco Paolini Il sergente, dedicato a Mario Rigoni Stern che assiste alla rappresentazione: l’effetto dell’evento resta radicato in profondità, e si fa spazio l’idea che l’epicentro culturale della galassia Morseletto possa estendersi dal Laboratorio alla Cava, rendendola un luogo dove si respirano allo stesso tempo le atmosfere di un tempio e di un teatro, e che il progetto debba coinvolgere uno dei nomi più rilevanti di quella galassia ormai enorme: David Chipperfield.

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La Cava Arcari al solstizio d'inverno. Foto Sophia Los

È un nome presente da tempo – ha firmato i negozi Valentino dove Morseletto ha fornito e realizzato terrazzo applicato a muro e scale in marmo di Carrara – ed è quello che quasi naturalmente viene associato al tipo di spazi che la Cava con le sue forme già sembra evocare. Il progetto parte nel 2010, si stenderà su poco meno di un decennio, ci racconta Deborah Morseletto, con un continuo viavai tra Londra e Milano, bozzetti di ispirazione piranesiana prima, modelli spesso al vero poi, fino all’inaugurazione il 18 maggio del 2018.

Quando apre al pubblico, Cava Arcari è prima di tutto un paesaggio d’acqua: la pietra di Vicenza è facile da lavorare perché è molto idratata, la cava intera in partenza è invasa d’acqua, tanto che la si deve parzialmente prosciugare, fino ad ottenere la topografia di oggi, con il grande pilastro centrale attorno al quale camminare per poi raggiungere il cuore, la cavea rivoltata, il podio di gradini che invece di catalizzare l’attenzione del pubblico si rivolge verso di esso, e verso gli altri gradini che come uno specchio senza vetri si riflettono nei segni che anni di estrazione hanno lasciato sulle volte. Chipperfield ha esteso il riferimento piranesiano alle composizioni geometriche di Adolphe Appia, primo scenografo a rivoluzionare la sua disciplina sostituendo forme astratte a tendoni e fondali dipinti.

Ed è questo in fin dei conti il paesaggio ipogeo di Cava Arcari: un universo monomaterico – pietra di Vicenza sopra, sotto e attorno – tratteggiato da poche linee di legno, contrastato dall’acqua e avvolto dalla vegetazione.

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La Cava Arcari al solstizio d'inverno. Foto Sophia Los

E, ancora, sezionato orizzontalmente da un ulteriore piano, fatto dalle luci realizzate da Viabizzuno e create assieme a Mario Nanni: una serie di “pipistrelli” che pendono dalla volta creandone una parallela più in basso, complementari a quelle che traspaiono dal fondo dell’acqua, ma pronte a essere rimosse al concludersi di ogni evento. Un’intuizione dell’ultimo minuto, racconta Deborah Morseletto: la soluzione classica a binari prevista fino ad una settimana dall’apertura proprio non l’aveva convinta, mentre l’idea di questo “secondo cielo” che riprendesse in modo fattibile la prima proposta – accantonata – di una costellazione di lumi a olio è stata poi quella scelta.

Cava Arcari oggi, col suo ripetersi ciclico di riempimenti e di svuotamenti che le lasciano questo aspetto tra il non-finito e il geologico, è un grande dispositivo che genera interazioni, con il paesaggio, il tempo e le stagioni soprattutto. Diversi livelli di artificio – quello collocato da Chipperfield, quello scavato dall’estrazione delle pietre, quello del posare un layer culturale su quello produttivo e quello naturale – che finiscono per raccontarci il paesaggio per ciò che è, una creazione dell’uomo, entrano in simbiosi con la materia, con la natura a cui devono tutto. Si crea un corpo naturale e armonico là dove invece si potrebbe pensare di aver raggiunto il livello più alto, astratto della razionalità, se non della ragione stessa.

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