Le ragioni del sensazionale in architettura

Gli edifici aspirano a essere ammirati, fotografati, amati. Ma la parte ornamentale è diventata spesso prevaricante nel contesto progettuale. Come superare questa impasse? 

Zaha Hadid Architects, Heydar Aliyev Center, Baku, Azerbaijan, 2012. Foto Hufton+Crow

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1072.

Gli edifici progettati dagli architetti devono essere visti. Devono essere guardati e ammirati. Bramano di essere fotografati e pubblicizzati. Vogliono che si parli di loro. La loro vanità è insaziabile, ma troppo spesso nascondono una carenza di qualità essenziali. Si dimostrano compiacenti con i concetti, ma poi questi appaiono sempre più volitivi e arbitrari. Aspirano a essere confortati dalle ideologie, ma le ideologie hanno poco spazio nella vita di tutti i giorni. Viene da chiedersi se gli edifici che assecondano le esigenze del sensazionale debbano per questo essere privati di intelletto. La logica dell’apparire non potrebbe invece offrire la base per ripensare il progetto architettonico e la sua tradizione? 

La pianta – antico strumento ‘generatore’ – è ancora al centro dell’intelligenza architettonica. L’esperienza, invece, rimane nella provincia esterna degli stimoli sensoriali. Ma cosa succede quando il progetto, appesantito da idee deboli e teorie fumose e inefficaci, è assente in senso profondo? Privato della giustificazione intellettuale, l’intero corpus architettonico, con la sua tradizione e le sue aspirazioni, diventa decorativo: lo sono il suo aspetto, i suoi progetti, le sue tecniche. Persino la sua esegesi – l’elaborata serie di parole di cui spesso si veste – è decorativa. Nessuna architettura rappresenta meglio questa immanenza dell’impulso decorativo di quella di Zaha Hadid: disegno, struttura, forma e superficie si fondono in un’unica, unitaria logica del sensazionale. 

La logica dell’apparire non potrebbe invece offrire la base per ripensare il progetto architettonico e la sua tradizione?

Anche il lavoro di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa è solo in apparenza rigoroso e profondo nei suoi propositi. Basta grattare la superficie (la cui sottigliezza dovrebbe già di per sé far riflettere) perché le qualità decorative inizino a brillare. Dall’esterno, le aperture delle loro architetture contribuiscono a formare composizioni decorative incolori di lucido su opaco. Dall’interno, gli oggetti della vita quotidiana – tappeti, sedie moderne, vasi di fiori, trapunte – diventano parti di un elaborato ornamento dietro il quale il corpo dell’edificio si ritira come se fosse a corto di sostanza. 

Ryue Nishizawa, House A, Tokyo, 2006. Foto Ufficio di Ryue Nishizawa
Ryue Nishizawa, House A, Tokyo, 2006. Foto Ufficio di Ryue Nishizawa

È come se l’arte dell’abitare coltivata da Alison e Peter Smithson, originariamente ispirata all’esempio del Giappone, si fosse radicata nel suo Paese d’origine e avesse prodotto una variante dell’ikebana. La vita stessa è diventata un ornamento. Così, nel XXI secolo, il Modernismo si conclude con un’esplosione decorativa. Come del resto aveva fatto il Classicismo nel Settecento. A partire dagli anni Venti del XVII secolo, gli architetti rococò – come Ange-Jacques Gabriel – mostrarono una spiccata preferenza per il bianco, che applicavano sulle superfici come il più leggero dei colori, ed eliminarono gli ordini classici dalle facciate, limitando la composizione alla disposizione delle aperture, proprio come nell’opera di Sejima e Nishizawa.

Gli edifici guadagnano in audacia e potrebbero ancora ricreare l’incanto che per secoli è stato una qualità primaria dell’architettura

Allora come oggi, la sensibilità presiedeva a un atteggiamento mentale per lo più scettico e critico. Nel Settecento, niente rappresenta meglio questo trionfo dell’apparire del coevo successo del merletto. Fino ad allora, la lavorazione del pizzo si era limitata ai polsini, ai colletti e alle gorgiere collocate sui capi d’abbigliamento più scuri, creando intorno al collo e ai polsi “transizioni visive e quasi musicali tra corpo, tessuto e spazio”. Ben presto, il pizzo ricoprì interi indumenti e divenne un materiale per gli abiti stessi. Rivestì gli altari, i tabernacoli e gli abiti dei sacerdoti. In breve, divenne l’attributo preferito per tutto ciò che era più piacevole, erotico e sacro. Nel passato recente, tre progetti di architettura hanno fatto riferimento al pizzo, due dei quali in modo esplicito. 

Foreign Office Architects, John Lewis Department Store and Cineplex, Leicester, Regno Unito, 2008. Foto Satoru Mishima

In prossimità del centro storico di Bruges, città un tempo famosa per la lavorazione del merletto, il progetto di concorso del 1998 per una sala da concerto di Neutelings Riedijk doveva essere rivestito con un “motivo decorativo astratto a traforo”, tutti termini comunemente applicati a questo genere di lavorazione del filato. A Nottingham, un altro centro di produzione del merletto, la galleria di arte contemporanea progettata da Caruso St John e completata nel 2009 è stata rivestita con “un manto di pizzo.” A Leicester, un tempo nota per la sua industria tessile, la parete divisoria del nuovo grande magazzino John Lewis è stata progettata da Foreign Office Architects per riprodurre le “tende di pizzo” (2008).  

In tutti e tre i casi, l’ornamento è sobrio, delicato e complesso, e gli architetti si sono chiaramente divertiti a provare qualcosa di simile a “quel gioco indistinto di piccole forme piene di vivacità” che è stato attribuito al merletto. Si tratta esattamente del tipo di sensazione estetica descritta da Benoît Mandelbrot, l’inventore della geometria frattale. In un articolo poco conosciuto sull’architettura (sicuramente uno dei pochissimi scritti da un matematico), Mandelbrot cerca di definire una “estetica della scala”. Egli distingue tra “oggetti in scala”, in cui solo pochi elementi – per esempio colonne, travi e montanti –, hanno ciascuno una dimensione distinta, e “oggetti scalari”, manufatti in cui sono presenti molti elementi diversi e con ogni dimensione possibile. Negli oggetti scalari, scrive Mandelbrot, “ci sono così tante scale diverse, le loro armonie sono così intrecciate e interagiscono in modo così confuso che non sono realmente distinte l’una dall’altra, ma si fondono in un continuum”. Poche persone sono più preparate a questa estetica delle merlettaie, creatrici di “piccole forme piene di vivacità”. 

Come gli oggetti scalari, il merletto presenta molte scale diverse che entrano ed escono dal fuoco visivo. La sua base è costituita da unità che possono essere rotonde, quadrate o esagonali, ottenute con motivi circolari, intrecci e torsione di fili. Questa base è talvolta disseminata di foglie (punti decorativi che ricordano i chicchi di grano) o ricoperta di ‘neve’ (una base secondaria di macchie che ricordano la neve). Sopra compaiono decorazioni o riempimenti, distinti dai motivi ripetuti del disegno vero e proprio. La base e i riempimenti sono costruiti contemporaneamente in un gioco virtuoso che nemmeno le merlettaie sono in grado di analizzare. Non soddisfatto della semplice complessità, questo virtuosismo tende all’infinitamente piccolo, digerendo tutti i motivi, siano essi astratti o figurativi, nella molteplicità della sua trama. Nell’architettura contemporanea esiste un analogo interesse estetico: l’impressione suscitata nella vista dalla complessità dei motivi e dalla qualità della trama dei materiali. 

Herzog & de Meuron, il Battersea campus al Royal College of Art, Londra, 2021. Foto Iwan Baan

È evidente, per esempio, nei motivi decorativi della cupola disegnata da Jean Nouvel per il museo del Louvre di Abu Dhabi (2017), in cui otto strati metallici con motivi realizzati su scala diversa si sovrappongono per dare ombra e luce soffusa. È anche evidente nelle pareti a bugnato del nuovo edificio del Royal College of Art di Londra aperto nel 2021, in cui Herzog & de Meuron hanno utilizzato il mattone come strumento tridimensionale. Ma la qualità emotiva della sensazione è ora così ridotta da sembrare quasi inesistente. Dov’è Eros? Dov’è Thanatos? 

L’emozione sopravvive, ma solo per poco, negli accessori delle composizioni finanziarie dell’edilizia commerciale, nelle icone sensazionali che a volte abbelliscono gli skyline delle nostre città e nei rivestimenti lussuosi appuntati sull’attillato corsetto delle normative. Ci coinvolge in imprese degne di un guinness dei primati dell’architettura. Modelli e trame sorprendenti, mai visti prima nelle strade alla moda di New York, Milano e Tokyo, stimolano la nostra curiosità. Gli edifici guadagnano notevolmente in audacia – probabilmente questo è un bene –, e potrebbero ancora ricreare l’incanto che per secoli è stato una qualità primaria dell’architettura.