Elmgreen & Dragset, 20 anni di Prada Marfa: “Abbiamo ancora bisogno di luoghi magici”

I due artisti raccontano a Domus come la celebre installazione d’arte pubblica in Texas continui a vivere al di là delle loro intenzioni, e di come questo l’abbia resa l’opera popolare e amata che è oggi.

Prada Marfa, Elmgreen & Dragset

Quando Elmgreen & Dragset (E&D) iniziarono a lavorare al progetto Prada Marfa, arrivato quest’anno al suo 20° anniversario, si posero una domanda che poco aveva a che fare con ciò che questa installazione rappresenta oggi, nel 2025. Per questa coppia di artisti all’epoca interessati ai processi di gentrificazione delle aree urbane, l’aspetto più stimolante del calare una ricostruzione iperrealistica di una boutique Prada lungo l’Highway 90, nel mezzo del deserto texano, risiedeva negli effetti di straniamento percettivo che questa scultura di “arte del paesaggio pop-architettonica” avrebbe suscitato in chi l’avesse incontrata casualmente, senza aspettative. Volevano comprendere che ruolo avesse il contesto sulla nostra interpretazione del sistema moda e, più radicalmente, come sarebbe apparso uno store di Prada – simbolo universale di ricchezza e consumo - se avesse intrapreso un viaggio di sopravvivenza in solitaria nel deserto.

Questa ossessione non era scaturita dal nulla, ma era figlia della diffusione sempre più capillare di boutique di lusso che si erano gradualmente imposte nella cultura e sul tessuto urbano agli inizi degli anni 2000, toccando E&D in prima persona. Il progetto precursore di Prada Marfa era infatti una mostra allestita dal duo nel 2001 presso la Tanya Bonakdar Gallery di New York, intitolata “Opening Soon/Powerless Structures”, e il cui pezzo forte consisteva in un cartello con scritto “Opening soon Prada” affisso sulla facciata della galleria: un commento ironico a un’economia che stava sacrificando spazi artistici a favore delle grandi boutique di moda e catene commerciali. Molti, cadendo nella trappola concettuale dell’intera operazione, chiamarono addirittura la direttrice della galleria dispiaciuti per la chiusura imminente, chiedendo informazioni e dettagli su chi avrebbe progettato il nuovo Prada store.  

James Evans, Prada Marfa 2020, Digital photograph.

Prada Marfa nasce così, da un’intuizione accolta dalle fondatrici dell’Art Production Fund (Apf) e Ballroom Marfa, le due organizzazioni committenti che finanziarono i lavori di costruzione dell’installazione permanente e che la collocarono nel deserto del Chihuahua, a circa 30 minuti dalla mecca dell’arte contemporanea, Marfa. Come hanno raccontato a Domus in una lunga conversazione via mail E&D, non si trattò di una decisione casuale:

L’idea di posizionare una boutique di lusso nel mezzo del deserto era legata alla nostra fascinazione per i primi progetti di land art. Abbiamo sempre amato queste opere d’arte molto remote, difficili da raggiungere ma che, nonostante ciò, sono dotate di una grande presenza.

Elmgreen & Dragset (E&D)

Grazie all’attività di Donald Judd che l’aveva trasformata in laboratorio di land art e minimalismo, Marfa rappresentava il contesto ideale in cui portare un’opera provocatoria che potesse tenere insieme una riflessione sui legami stratificati tra arte, capitalismo e industria della moda. Non solo l’uso commerciale del minimalismo aveva plasmato l’estetica e l’interior design degli atelier di lusso agli inizi degli anni 2000, ma la città stessa si era trasformata a partire dagli anni ‘70 in una realtà urbana al centro del turismo globale, facendo eco alle dinamiche neoliberiste che stavano modificando l’assetto delle grandi città nell’indifferenza collettiva. 

Sin dall’inizio l’opera ha voluto giocare con questi cortocircuiti, fungendo da piccola guida distopica per scompaginare la nostra percezione abituale e convincerci che l’impensabile fosse possibile, che ciò che veniva dato per scontato del nostro vivere quotidiano potesse contenere contraddizioni interne e caratteri paradossali. L’obiettivo era quello di agire sul nesso semantico tra contenuto e contesto: alterarne uno per attirare l’attenzione sull’altro in un circolo continuo. Per questo E&D decisero di collocare un simbolo del lusso in un contesto spoglio, isolato dai flussi di consumo, dove la natura quasi feticista del brand potesse essere svelata e annullata dal dissolvimento nel paesaggio desertico, in un lento processo di “degrado creativo e generativo”, come lo definì Dragset, causato dall’azione degli agenti atmosferici.

Prada Marfa, Elmgreen & Dragset
Elmgreen & Dragset, Prada Marfa, 2005. Photo Lizette Kabre. Courtesy of Art Production Fund and Ballroom Marfa

Prada Marfa viene inaugurata nel 2005, con un “modesto evento di apertura, senza molta attenzione da parte della stampa” e il benestare di Miuccia Prada, che riconoscendo la forza espressiva del progetto consentì agli artisti di utilizzare l’identità visiva del marchio – dalla palette cromatica alla scelta della moquette – donando anche scarpe e borse originali dalla collezione autunno/inverno 2005. L’intera struttura, costruita insieme agli architetti Ronald Rael e Virgini San Fratello, venne realizzata in mattoni di adobe, gesso e vetro biodegradabili, con tutti i crismi di una vera e propria scultura minimalista. Nel complesso, le sue linee orizzontali e l’allestimento parallelo dei ripiani espositivi erano state concepite per dialogare apertamente con gli orizzonti piatti del paesaggio desertico e le installazioni modulari di Donald Judd, ammiccando con la tonalità degli interni verde pistacchio alle opere di Dan Flavin esposte nella vicina Chinati Foundation. 

Tuttavia, la sua iniziale vocazione all’obsolescenza lenta ebbe vita breve. Dopo appena due giorni dall’inaugurazione, l’opera fu vandalizzata e saccheggiata: la facciata dell’edificio imbrattata con graffiti, i vetri colpiti con armi da fuoco, la porta divelta e gli oggetti in esposizione rubati. I produttori dell’opera e gli stessi E&D, pur condonando l’atto, optarono allora per un suo restauro e riallestimento completo, ritenendo che la distruzione della boutique fosse avvenuta prima che un numero sufficiente di persone potesse vedere la scultura nel suo stato originale. 

Prada Marfa, Elmgreen & Dragset
Elmgreen & Dragset, Prada Marfa, 2005, Photo Lizette Kabre. Courtesy of Art Production Fund and Ballroom Marfa

Sebbene l’intervento di ripristino sia stato oneroso e complesso — con l’installazione di un allarme e finestre antiproiettile — le conseguenze del vandalismo furono decisive nell’attirare su Prada Marfa un’attenzione mediatica internazionale, che, in un modo imprevedibile per i suoi creatori, si trovò coinvolta in spinose vicende legali con il Dipartimento dei trasporti del Texas. A seguito di una denuncia per un’altra opera d’arte pubblica commissionata nelle vicinanze da Playboy Enterprise, Prada Marfa venne trascinata in tribunale rischiando la chiusura dopo 8 anni dall’inaugurazione perché dichiarata “insegna pubblicitaria illegale” per l’uso del logo Prada: dopo un anno di trattative le venne riconosciuto lo status di museo, con l’edificio stesso designato quale unica esposizione, e di conseguenza la possibilità di restare. 

Da allora, e dopo essere stata vandalizzata innumerevoli volte – anche dall’artista Austin Joe Magnano nel 2014 –, Prada Marfa è diventata una vera icona pop e meta di pellegrinaggio di fama mondiale, con una nutrita schiera di persone che si occupa della sua conservazione per mantenerla sicura, accessibile e conforme allo spirito della proposta originale di E&D. L’opera è quindi sopravvissuta grazie a una manutenzione costante, che però ha reso manifesto quanto sia stato lo scarto tra progetto e realtà ad averle dato nuova vita. 

Prada Marfa vent’anni dopo

A vent’anni di distanza, Prada Marfa è visitata da migliaia di persone ogni anno ed è riconosciuta come una tappa cult — anche grazie a I Simpson, Gossip Girl e Beyoncé — che continua a generare interrogativi cruciali per il sistema dell’arte contemporanea. Tuttavia, in quanto nata come riflessione sul potere dello straniamento e della decontestualizzazione, ora che i social media contribuiscono a reinserirla continuamente nei circuiti del consumo, facendole produrre capitale simbolico per la maison di cui altro non è che un simulacro, Prada Marfa può ancora rimanere fedele alla sua natura originaria? 

Prada Marfa ne I Simpson
I Simpson, 2019 © Simpson e 20th Television

Secondo E&D, non può esistere una risposta definitiva a questa domanda. “Per noi il significato di un'opera d'arte non è mai fisso, e può dirsi “completa” solo quando esperita da chi la incontra. In questo senso, il pubblico non è passivo ma un partecipante attivo, e l'opera continua a vivere non più meramente come oggetto, bensì come qualcosa che si anima attraverso le interazioni, le storie e le riflessioni che genera”. Come hanno raccontato a Domus, ogni intervento artistico — soprattutto se in uno spazio pubblico — finisce inevitabilmente per intraprendere strade inaspettate e accogliere in sé reazioni e relazioni plurime. 

A volte descriviamo Prada Marfa come un figlio che abbiamo cresciuto: a un certo punto, il figlio diventa adulto, lascia casa e inizia la sua vita, plasmata da altri, al di fuori del nostro controllo. È così che vediamo il nostro lavoro oggi, e quindi sicuramente evolverà nei prossimi decenni superando le nostre intenzioni iniziali. Forse ci sopravvivrà persino

Elmgreen & Dragset (E&D)

In senso lato, non è quindi sbagliato sostenere che il destino di Prada Marfa sia intrecciato con la trasformazione della fruizione artistica nell’era digitale. Il suo isolamento remoto non l’ha tagliata fuori dal corso degli eventi, né dall’evoluzione della cultura contemporanea. La diffusione di immagini dell’opera su internet e sui social l’ha piuttosto catapultata in una matrioska di segni, simulacri e simulazioni — come direbbe Baudrillard — che ha esponenzialmente aumentato il suo grado di ambivalenza simbolica. “Le persone vi proiettano sopra le proprie storie. Per alcuni è lo sfondo di una fotografia di un viaggio o di una celebrazione; per altri, è una critica alla cultura del consumo. Naturalmente può essere visto come una riflessione sulle sovrapposizioni e gli scambi tra arte e moda, non ultimo l’interesse condiviso per il minimalismo, ma questo è solo uno dei tanti modi in cui può essere interpretato”.

Se da un lato il progetto era fondato sull’idea di modificare il nostro modo di guardare a una boutique di lusso inserendola in una nuova, inconsueta relazione col paesaggio desertico, dall’altro, lo sguardo che le è stato rivolto negli anni è spesso rimasto il medesimo: il pubblico sembra essere sedotto e intrigato da Prada Marfa proprio per la sua associazione con Prada e l’insieme di valori reali che a essa si accompagnano, soprattutto perché calati in un’atmosfera irreale. “Pensiamo che parte della sua popolarità derivi dalla contraddizione che la caratterizza: sembra una boutique di moda, ma è permanentemente chiusa in questo luogo desolato come una sorta di miraggio.”
 


Eppure, anche questa tensione non fa altro che accrescere quel senso di incredulità che si prova davanti a un’opera che è stata in grado di rimanere sempre uguale a sé stessa nonostante tutto il mondo attorno sia cambiato, in una sospensione temporale che ha i tratti e l’immutabilità di un’uniforme monotonia. Prada Marfa continua e continuerà a vivere nella desolazione del deserto, immobile e protetta, senza che si riesca a imporle né il silenzio, né l’invisibilità. Una presenza lontana, ma in perpetua intimità con le proiezioni e le storie di chiunque ne abbia fatto esperienza: un’operazione quasi comica che agisce tutto sommato da incantesimo rassicurante, perché, ci ricordano E&D, “in un periodo di tristezza globale, abbiamo bisogno di luoghi magici”. 

Immagine di apertura: James Evans, Prada Marfa, 2005, digital photograph.

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