Treviso. Il Museo Bailo di Studiomas è un ambiente quasi metafisico

Nel progetto dello studio di Padova, doppie altezze, luce zenitale e giochi di quinte murarie coinvolgono gli spettatori in un’esperienza dal sapore teatrale.

Studiomas, Museo Bailo, Treviso

Curato da Mario Cucinella, il padiglione italiano alla Biennale d’Architettura di Venezia custodisce sotto il titolo allusivo di “Arcipelago Italia” un’approfondita indagine dell’Italia “interna”: un territorio discontinuo e laterale rispetto ai circuiti dei principali centri urbani e al sistema attrattore costiero, capace però di custodire episodi sorprendenti d’innovazione e ricerca. L’atlante ricostruito dal Padiglione Italia raccoglie dunque una serie di casi significativi in questo palinsesto tanto ricco quanto seminascosto: primo fra tutti il progetto del borgo telematico a Colletta di Castelbianco, sull’Appennino savonese, avviato da Giancarlo De Carlo all’inizio degli anni Novanta. Nello stesso periodo, attraverso il programma televisivo Sottotraccia, Ugo Gregoretti realizzava un racconto poetico e coinvolgente attraverso i territori italiani della progettualità in filigrana. 

In realtà, la capacità del nostro Paese di attivare o attirare innovazione a partire anche dalle sue realtà più interne appartiene a un DNA ormai sedimentato dalla storia. Solo per citare un esempio clamoroso alle radici della contemporaneità: la fondazione nel 1957 della Prima Internazionale Situazionista avviene a Cosio d’Arroscia, un paese di neanche 100 anime sulle alture di Imperia (a meno di 50 km da Colletta): quasi un paradosso per una corrente artistica e filosofica che, con la sua visione, anticipa la costante frenesia della metropoli contemporanea. 

Più di recente, a Treviso (città tradizionalmente interna rispetto a Venezia) ha preso il via il progetto di completamento del Museo Bailo, realizzato da Studiomas architetti, già autore di un primo intervento di recupero della struttura. Veicolata dalle qualità dell’architettura e dell’arte che vi è ospitata, la nozione di “interno” richiama altre e molteplici sfumature, che lasciano l’originaria metafora geografica sullo sfondo. Esternamente l’edificio si distacca con discrezione dal contesto, adottando un linguaggio moderno astratto, ma non urlato: il fronte principale è una facciata-bassorilievo in cemento bianco, arretrata rispetto al fronte stradale e contrappuntata da un corpo estruso a croce asimmetrica – forse un omaggio all’abate Luigi Bailo, primo fondatore del Museo Civico nel 1879 –, alla cui base si apre l’ingresso principale. Ma è appunto all’interno che lo spazio assume un vero valore aggiunto, determinato in prima istanza dal serrato dialogo tra gli asciutti elementi inseriti da Studiomas e le preesistenze storiche, a partire dallo spettacolare chiostro cinquecentesco. 

Ne scaturisce un ambiente quasi metafisico, in cui doppie altezze, luce zenitale e giochi di quinte murarie coinvolgono gli spettatori in un’esperienza dal sapore teatrale. Il vero apice è però raggiunto con l’entrata in scena delle figure insieme deformi, vibratili e spirituali di Arturo Martini. Un’apparizione spiazzante e ipnotica che spinge a pensare come il giovane artista firmasse le sue lettere da Parigi – “il più gran scultor del mondo” – e che, in fondo, qualche ragione l’aveva. 

Spingendosi ancora un po’ più all’interno del territorio si può incontrare una terza sfumatura del concetto rievocato fino a ora. L’opportunità è fornita dal ruolo di mecenatismo nell’operazione di recupero dal Museo Bailo assunto da Arper: azienda del settore degli arredi che, partendo nel 1989 da Monastier, nelle campagne di Treviso, ha saputo stabilire un ponte con il palinsesto internazionale della cultura del progetto. Animata dalla fondativa collaborazione con lo studio di Barcellona Lievore Altherr Molina (studio Lievore Altherr da aprile 2016), autore in primis della serie di sedute long-seller Catifa, Arper ha saputo costruire in pochi anni un proprio linguaggio fortemente caratterizzato, basato su forme d’innovazione comunicate in maniera sottile e prive di esasperazioni tecnologiche. Una matrice con cui si sono confrontati, interpretandola senza stravolgerla, designer dalla cifra espressiva anche molti varia, come Jean-Marie Massaud (divano Steeve e seduta direzionale e lounge Aston); James Irvine (seduta Juno); Simon Pengelly (tavolo Nuur, vincitore del Compasso d’Oro nel 2011), Metrica (tavolo Cross) o Ichiro Iwasaki (sedute Pix). Oggetti che nascono in un territorio interno, vivono negli interni delle case o dei luoghi collettivi, custodiscono all’interno i propri più complessi segreti. Ma spesso, niente più dell’energia che viene dal profondo può guidarci verso un vero orizzonte.  

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