Una comunità progettante

Intervista a Lord Richard Rogers, che pur essendo uno dei più importanti architetti del mondo, gradisce essere chiamato semplicemente Richard.

Lo studio Rogers Stirk Harbour + Partners, che ha sede nel quartiere londinese di Hammersmith, è una società concepita come una comunità, al fine di stimolare un forte senso di responsabilità civile. La proprietà dello studio è detenuta da una fondazione filantropica. Pagate tutte le spese, la maggior parte degli utili residui viene distribuita sotto forma di profitti o di donazioni, molte delle quali gestite direttamente dai membri del personale, che scelgono a loro discrezione le associazioni di beneficenza

Alona Martinez Perez: Lei è nato a Firenze, è cresciuto in Inghilterra, ha studiato a Londra e a Yale, ha lavorato a Parigi, a Londra e in Spagna. Quali luoghi e quali persone hanno influenzato la sua vita e la sua decisione di diventare architetto?
Lord Richard Rogers: Da un punto di vista culturale, l'Italia e l'Inghilterra, dove sono cresciuto. Ho scoperto la Spagna in una fase più tarda della mia vita, perché solitamente trascorrevo le vacanze in Italia. Ma più recentemente, negli ultimi vent'anni, ho cominciato a conoscere la Spagna molto meglio e lo trovo un Paese fantastico.

Le chiedevo anche dei suoi riferimenti: chi ha influenzato la sua architettura?
Soprattutto i miei colleghi di oggi e di ieri: Renzo Piano, Norman Foster, John Young, Mike Davies, Graham Stirk, Ivan Harbour e lo strutturista Peter Rice. Peter era un pensatore, un interlocutore e un amico meraviglioso. Era uno che risolveva i problemi. Poi vi sono stati molti altri architetti – da Brunelleschi a Frank Lloyd Wright – come anche molti meravigliosi edifici.

Lord Richard Rogers. Photo Andrew Zuckerman
Lord Richard Rogers. Photo Andrew Zuckerman
Perciò lei non vede tanto una netta distinzione tra discipline, quanto piuttosto un insieme dai confini permeabili.
Dipende. Alcuni ingegneri sono semplicemente matematici, alcuni architetti fanno solamente disegni tecnici: non vi è niente di male in questo, ma Peter si occupava un po' di tutto, come i medici di base. A me piacciono quelli che spaziano in vari campi.

Che cosa l'ha spinta a diventare architetto?
Non lo so. Dico spesso – e si tratta di una razionalizzazione a posteriori – che mio padre era medico, mia madre ceramista e, se mescoli scienza e arte, ottieni l'architettura! Ho avuto poi un'altra buona ragione per la mia scelta. La mia famiglia era principalmente costituita da architetti e medici. Tuttavia, essendo io dislessico, non sarei mai riuscito a superare gli esami necessari per studiare medicina: in pratica, la dislessia mi impediva di diventare dottore, per cui la scelta di studiare architettura mi sembrò ovvia. Un disturbo come il mio può rivelarsi molto pesante per quanti non abbiano genitori e amici sufficientemente comprensivi. Io ho avuto la fortuna di avere genitori che mi hanno sempre molto sostenuto. Quando ero ragazzo, la dislessia veniva chiamata 'stupidità'. Oggi, fortunatamente, la si comprende molto meglio, ma tanti giovani dislessici devono ancora lottare con fatica a causa dell'inadeguata comprensione di questa condizione da parte della società nella quale viviamo.

Certo, lei la chiama esclusione, anche se forse si è trattato di una fortuna, perché è così che è diventato architetto...
Sì, sono stato immensamente fortunato e più invecchio, più mi piace l'architettura.

Come si fa a trasformare una difficoltà in una risorsa?
I vincoli sono importanti. In altre parole, non essere in grado di fare certe cose è un vincolo, ma un vincolo si può trasformare in un vantaggio o in una nuova idea.

E quindi i suoi genitori l'hanno incoraggiata?
Sì, assolutamente sì.

E lei ne è grato o felice?
Assolutamente sì, anche se devo precisare che l'ultimo terzo della mia vita è stato migliore del primo terzo: mi è piaciuto molto di più. Nel secondo dopoguerra, gli inglesi hanno sofferto del cosiddetto "shock of the new", specialmente in termini di arti visive. Siamo stati sempre molto bravi in letteratura, poesia, teatro... ma negli anni Quaranta e Cinquanta vi fu un movimento popolare ostile all'arte e all'architettura moderne, nessuna delle quali era adeguatamente compresa nell'Inghilterra della mia giovinezza. Forse per il fatto di provenire da una famiglia italiana, non provai lo stesso senso di 'shock', benché ricordi che mia madre fosse solita indossare calzini sgargianti che mi mettevano in imbarazzo, quando mi portava a scuola!

Questo la metteva in imbarazzo?
Sì, le dicevo: "Accidenti, perché devi metterti questi calzini?"

Rimprovera a sua madre il fatto di indossare indumenti sgargianti, proprio lei che adesso indossa una sgargiante camicia arancione…
Ecco, immagino che la mia scelta venga proprio da lì! Un vincolo si è trasformato in un vantaggio.

Vorrei parlare più specificamente delle città. Qual è un esempio di città veramente sostenibile?
Barcellona. Bilbao, al contrario, è un buon esempio di città che riesce a raggiungere un'alta densità abitativa con unità residenziali basse e fitte.

Che cosa le piace di Bilbao?
Bilbao è radicalmente cambiata in meglio nel corso degli ultimi trent'anni. L'interesse di questa città risiede nel fatto che, a differenza di Barcellona, il cambiamento è derivato molto più dalla costruzione di edifici di grande qualità architettonica, che hanno conferito coesione alla città stessa. Barcellona è un'altra cosa: si tratta più di una rete organica ben progettata.

Perciò, quando guarda a una città, guarda alla sua costruzione?
In un certo senso, sì. Tutte le città sono comunità: devono avere spazi pubblici ben progettati perché la gente possa incontrarsi, commerciare, scambiarsi idee e così via. Le città devono anche essere sostenibili, "città compatte": città dove si lavora e si abita, dove ricchi e poveri possono coesistere e dove lo sviluppo è concentrato intorno ai nodi della rete dei trasporti. Le città migliori saranno quelle che sapranno trovare un forte equilibrio tra gli abitanti e l'ambiente geografico ed ecologico.

In città come Lagos o Città del Messico, nelle quali le istituzioni municipali stentano a limitare l'espansione urbana, diventa difficile applicare i tradizionali modelli architettonici e di pianificazione. Come vede il futuro di questo genere di megalopoli, che crescono così rapidamente? Il modello della città ad alta densità può funzionare anche lì?
Si può suddividere qualsiasi città di grandi dimensioni in comunità lavorative-residenziali ben collegate le une alle altre. Prendiamo, per esempio, Parigi, dove stiamo lavorando a un importante progetto di pianificazione urbanistica: il presidente Sarkozy ha chiesto a un piccolo numero di progettisti di immaginare il futuro della città. Ma la Parigi che conosciamo è in realtà soltanto il centro di un agglomerato abitato da 1,8 milioni di abitanti, mentre gli altri otto milioni stanno nei sobborghi. Parigi ha un solo sindaco per quasi 1,8 milioni di persone, mentre gli altri otto milioni hanno in tutto 1.200 sindaci. Città del Messico, che conta 8,8 milioni di abitanti, ha tre o quattro quartieri ben progettati e benestanti, mentre i sobborghi, che crescono in maniera continua e disordinata, senza pianificazione, tendono a essere poveri e pericolosi. La sfida è quella di riuscire a saldare queste diverse aree, facendo però in modo che mantengano una chiara identità all'interno dell'insieme. Non penso che le dimensioni siano un fattore decisivo. Si tratta di costruire contesti urbani vivibili.

E questo contesto urbano ha bisogno – come, per esempio, nel suo progetto per Shanghai – di linee di trasporto pubblico. Pensiamo all'Irlanda, a Belfast e Dublino, e a tutti quei piccoli villaggi che le circondano: come possiamo immaginarli in termini di sviluppo rurale, se devono crescere?
Penso che il punto cruciale sia quello di creare un ambiente socialmente misto e di aiutare le comunità, nelle quali si abita, si lavora e si svolgono attività ricreative. In Irlanda le città sono molto più piccole e le dimensioni sono molto più umane.

Qual è il politico britannico che capisce meglio l'architettura contemporanea?
In termini di risanamento urbano, direi John Prescott, che occupava la carica di Vice Primo Ministro quando presiedevo la Urban Task Force, e si dimostrò un grande fautore dell'idea di città sostenibile.

Nell'introduzione alla relazione finale dell'Urban Task Force Report ("Towards an Urban Renaissance"), Pasqual Maragall scrive che il 'trucco' di Barcellona è stato quello di scegliere prima la qualità e poi la quantità. A suo parere, la Gran Bretagna non è consapevole di questo 'trucco' quando affronta la questione della crescita urbana e della fornitura di alloggi?
Occorre avere un progetto di ampio respiro, insieme a conoscenza e obiettivi chiari, per evitare il caos sociale ed economico che conduce all'esclusione sociale. Occorre avere anche spazi pubblici ben progettati. La quantità non deve prendere il posto della qualità, che non è un accessorio. Si tratta di un punto importante, perché abitare in spazi ed edifici ben progettati migliora la qualità di vita della gente, rendendola più ricca e piacevole. Nel nostro studio partiamo dalla nozione di spazio pubblico e l'edificio è in pratica un'estensione di questo spazio pubblico. Nella Piazza del Campo di Siena o a San Marco, a Venezia, non conta tanto lo spazio del suolo, quanto il fatto che sia racchiuso da strabilianti edifici, vuoi gli edifici del Duecento e del Trecento che circondano la piazza di Siena, vuoi quelli del Quattrocento e del Cinquecento intorno a San Marco: senza quegli edifici lo spazio pubblico non sarebbe propriamente definito all'interno del suo contesto.

Quindi l'architettura è molto importante?
Sì, naturalmente. Io contesto sempre l'idea che la pianificazione sia cosa diversa dall'architettura... Sono la stessa cosa: cambia soltanto la superficie, che nel primo caso è orizzontale, nel secondo verticale.

Se riandiamo alla pubblicazione di Cities for a Small Planet e di Cities for a Small Country, troviamo che le conclusioni erano chiare, sia per quanto riguarda i successi che per quanto riguarda gli insuccessi. Quanto alle cose che non hanno funzionato, possiamo intervenire per migliorarle?
Naturalmente la perfezione non è di questo mondo... A ogni nuova sfida tentiamo solamente di raggiungere un esito migliore della volta precedente e di spingerci più lontano. Ogni città deve affrontare sfide diverse. Fino a poco tempo fa, per esempio, Londra non aveva un sindaco e ogni cosa era controllata dal governo centrale o dalle circoscrizioni. Ken Livingstone è stato il primo sindaco di Londra nel 2000, e io ebbi il ruolo di primo consigliere in materia di architettura e urbanistica. In molti altri Paesi vi sono sindaci potentissimi, che possono prendere decisioni cruciali per il futuro della propria città. Barcellona, per esempio, ha tratto notevole beneficio da una serie di eccellenti sindaci. Io credo in città-stato forti.

Per tornare alla questione del politico britannico che capisce meglio l'architettura contemporanea, lei risponderebbe John Prescott?
A mio parere capisce il collegamento tra ambiente geografico ed esclusione o inclusione degli abitanti delle città. Ha chiaramente compreso e riconosciuto che vivere in un quartiere degradato ti abbruttisce. Mi esprimo in termini semplicistici, ma fondamentalmente chiari. È molto più facile vivere in una casa ben progettata o in un appartamento con uno splendido panorama, circondati da piacevoli spazi pubblici e bei luoghi d'incontro… hai molte più chance che se vivi in un ambiente mal progettato.

Ma lei, che è architetto e Lord, si interessa di politica?
Naturalmente sì, così come, d'altra parte, ogni cittadino è coinvolto nell'architettura. Amo ripetere che l'architettura è politica, che tutto è politico... Il concetto stesso di avere società che rafforzino la volontà dei cittadini di fare cose all'interno di quelle comunità è interamente politico. L'architettura è nata dai vincoli. Come architetto devi trasformare questi vincoli in cose positive, ribaltarli.

Quindi, in un certo senso, i vincoli permettono di trovare una soluzione nel dialogo.
Se il cliente dice: "Voglio due camere da letto e un salotto", le sue parole possono sembrare un vincolo inizialmente, anche se in realtà non è così, perché puoi discutere con lui i modi di realizzazione del progetto. Poi devi prendere in considerazione il rapporto tra l'edificio e il luogo, e tra il luogo e la comunità. Devi mettere insieme tutte queste cose. L'architettura, quindi, è essenzialmente apprendimento, è scambio costante di idee tra persone diverse.

Una delle questioni che mi preoccupano maggiormente in quanto docente è la separazione tra pianificazione, architettura e urbanistica.
Nella società contemporanea vi è una tendenza alla specializzazione, ma a mio parere i primi tre anni dello studio di architettura dovrebbero offrire una preparazione generale. Poi, se uno studente si vuole specializzare, per esempio, in pianificazione, architettura del paesaggio o scienza delle costruzioni, dovrebbe essere libero di farlo. Anch'io valgo di più come architetto generico che come architetto specializzato.

L'intervista si è svolta a Londra, nello studio di Richard Rogers, nel dicembre 2009.
Nata a Bilbao (Spagna), Alona Martinez Perez si è laureata in architettura all'Università di Sheffield e ha conseguito il Master of Science e il Postgraduate Diploma in urbanistica all'Edinburgh College of Art. Nell'ambito della ricerca, lavora in associazione con l'architetto Claudia Trillo (Università di Napoli) e collabora con il Consiglio Nazionale delle Ricerche in Italia. Attualmente è lettrice in pianificazione, con specializzazione in 'placemaking' e urbanistica presso l'Università dell'Ulster ed è membro associato del BERI (Built Environment Research Institute).

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