Testo di William Menking, Aaron Levy e Andrew Sturm
La mostra "Modern Architecture" allestita nel 1932 al Museum of Modern Art metteva in luce – o, secondo alcuni critici, creava – una frattura all'interno della pratica architettonica americana. La mostra fu ideata da Henry Russell Hitchcock, Philip Johnson e Alfred Barr e presentava l'architettura moderna semplicemente come uno stile figurativo evolutosi dai nuovi materiali e dai nuovi concetti dell'abitare. Probabilmente, la posizione abbracciata da Johnson, Hitchcock e Barr, rappresentava all'epoca la pratica architettonica in America del Nord ed è rimasta dominante fino al Ventunesimo secolo.
È interessante notare che a Lewis Mumford, che si era interessato all'edilizia popolare europea durante tutti gli anni Venti, fu chiesto di partecipare alla sezione della mostra dedicata all'edilizia abitativa. La tesi da lui sostenuta, secondo cui l'architettura moderna si sarebbe sviluppata dall'interesse per il benessere sociale, come il movimento a favore di un'edilizia dignitosa per tutti i segmenti della società, era in diretto confitto con la posizione più formalista della mostra. Mumford, tuttavia, continuò a sostenere la sua tesi "sociale" riguardo all'architettura per tutto il Ventesimo secolo; sarebbe troppo semplicistico concludere che non ebbe aderenti e seguaci, nondimeno il suo approccio è rimasto minoritario nella successiva evoluzione architettonica.
In effetti si potrebbe sostenere che, oggi, la frattura tra queste posizioni contrastanti resta uno dei problemi più importanti e pressanti nella professione. "Into the Open: Positioning Practice", la mostra che abbiamo preparato per il Padiglione statunitense alla Biennale di d'architettura di Venezia di quest'anno, entra nel merito di tali questioni e prende posizione a favore di Mumford, mettendo in evidenza le espressioni contemporanee di impegno, analisi e progettazione sociale.
In un ambiente caratterizzato da un impasse territoriale e istituzionale, gli architetti, i ricercatori urbani e gli attivisti sociali devono intervenire sempre più spesso, mettendo in discussione i metodi architettonici tradizionali e "andando oltre l'edificio". Ciò non vuol dire fare a meno del valore dell'architettura di per sé, quanto piuttosto riconoscere la complessità unica di ogni situazione. La nostra mostra esplora il modo originale in cui questi attori hanno raccolto la sfida di progettare le condizioni da cui possono emergere i nuovi architetti. Questi ultimi stanno diventando attivisti di una politica urbana inclusiva, che sviluppano e favoriscono, e produttori di una ricerca urbana unica.
Questi nuovi professionisti sono ragguardevoli per il modo in cui pongono l'accento sull'inventiva, sull'economia interdisciplinare dello sviluppo che si estende in modo creativo attraverso le istituzioni, le agenzie e le giurisdizioni per negoziare risorse nascoste nel settore privato, pubblico e in quello non-profit.
Negli Stati Uniti, in assenza di progetti infrastrutturali su larga scala, le iniziative locali stanno acquistando nuova autonomia e stanno diventando arene dinamiche per l'esplorazione e la creazione di nuove forme di socialità e di attivismo. Attraverso questo concetto allargato della professione architettonica e delle sue responsabilità, si possono affrontare e mitigare, con una diversa prospettiva, problemi e conflitti apparentemente difficili, quali le popolazioni che cambiano, gli spostamenti di confine e il diseguale sviluppo economico esacerbato dall'esplosione dei flussi migratori e dell'urbanizzazione.
Con la nostra mostra, vogliamo suggerire che i confini sociali, culturali e spaziali vengano considerati come il nuovo contesto per definire i problemi architettonici. Di conseguenza, abbiamo identificato una serie eterogenea e diversificata di sedici studi – da centri di ricerca come il Centre for Land Use Interpretation, a programmi pedagogici come il Rural Studio o opere di progettisti come Estudio Teddy Cruz e Gans Studio – che hanno acquistato autonomia grazie all'inventiva con cui lavorano e con la quale si impegnano. La logica curatoriale che soggiace a questo progetto mette in luce il modo in cui gli architetti, i ricercatori urbani e gli attivisti rivendicano la capacità di plasmare la comunità e l'ambiente costruito. La nostra speranza è che questa tassonomia produca una nuova visione della pratica architettonica e delle forme potenziali di partecipazione sociale.
Per restare attuale, l'architettura deve trovare il modo di rispondere alla fluidità culturale, alle sfide socio-economiche e alle incrinature ambientali che definiscono il nostro tempo. Nel fare ciò, speriamo di immaginare l'architettura come un generatore di nuove forme di socialità e di attivismo, capace di portarci al di là della divisione ideologica.
Into The Open: gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia
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- 23 settembre 2008