Il progetto vincitore del concorso per la Ciudad del Flamenco di Jerez de la Frontera in Spagna, aggiudicato lo scorso mese, gioca sull’ambiguità di un muro ricamato, che filtra la luce della città mediterranea. Testo di John Palmesino. Immagini e disegni: © Herzog & de Meuron
A Jerez, la luce splenderà attraverso i muri. Il concorso internazionale per la Ciudad del Flamenco richiedeva di trasformare un lotto vuoto al centro della città storica in un complesso per lo studio, la rappresentazione, la prova, l’esercizio, la documentazione e la danza del Flamenco.
La risposta di Herzog & de Meuron è un dispositivo architettonico che si misura con la natura minerale e spaziale della città andalusa, attraverso un confronto semplice, ma intelligente e poetico.
L’edificio nasce da un abile gioco di sottrazioni della materia edilizia. Al punto che il miglior modo per descriverlo è di partire dal vuoto che ne è il centro: un’ampia corte che ospita un aranceto, bacini d’acqua e fontane, nella migliore tradizione delle città mediterranee, e dei loro spazi aperti, che sono in realtà grandi stanze. Ma, a sorpresa, sotto questo spazio se ne trova un altro, scavato nel suolo, dove si trovano i volumi per gli auditorium, le aule, le sale prove.
A delimitare il cortile-giardino, non una parete, ma un vero e proprio muro. Un muro così denso, spesso, che non si limita a circoscrivere uno spazio, ma diventa uno spazio abitabile in sé. Le attività che il muro contiene, e che fatalmente gli sottraggono materia, generano una varietà di vuoti peculiari: piccoli vani, passaggi, pozzi di luce che discendono agli auditorium e alle sale prove nel sottosuolo.
La Ciudad del Flamenco si apre al proprio interno, ma è dall’esterno, dalla seduzione della luce mediterranea e della città storica, che trae il fascino finale: la luce potente del sud incontra la pelle svizzera (se pur di pietra locale) e la brucia, trapassandola di trafori, increspandola, scrostandola.
L’edificio acquista così un rapporto ambiguo col tempo e con la città, al punto che viene da chiedersi se si tratti di una nuova configurazione o non piuttosto di una rovina. Se le perforazioni moiré delle finestre sono prodotte da un’azione deliberata o invece dal passare del tempo.
In ogni caso, questo ennesimo gesto di ‘levare’ riesce ad arricchire il rapporto con l’esterno di una dimensione molto cara alla spazialità meridionale: quella dello spiare, dello scrutare furtivo. Trafori, schermi e ricami, grazie anche all’interno ombroso, permettono infatti a chi abita gli spazi interni di vedere fuori senza esser visti.
Ma, al calare della sera, il rapporto si capovolge: il volume minerale dell’edificio, che si sarebbe detto massiccio, si accende internamente e svela in negativo la sua trama di vuoti e cavità. Nelle ore serali e notturne il bastione e la torre lasciano intravedere presenze e movimenti, allettano il passante con promesse di attività, anticipazioni di quella danza che è il motivo (o il pretesto?) e il cuore dell’edificio. Chiunque conosca lo struggimento di ascoltare – in una sera d’estate – i suoni di una festa uscire dalle finestre aperte su una piazza o su un vicolo di una città mediterranea, sa che fra qualche anno sarà davvero difficile – per chi passeggerà nelle strade di Jerez - resistere all’invito che proverrà dalle forature della Ciudad del Flamenco.
Herzog & de Meuron. Un giardino murato per il flamenco
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- 09 febbraio 2004