Quando utopia radicale e architettura parametrica si sono incontrate: la Kunsthaus di Graz

Nel 2003 Colin Fournier e Peter Cook, ex-Archigram, completano un edificio destinato a diventare il “blob” computerizzato per antonomasia e una delle poche architetture radicali davvero realizzate.

La fine degli anni '90 è un periodo estremamente intenso per l'architettura, che ormai può con sempre meno problemi accedere a tecnologie digitali di produzione avanzatissime – spesso derivate da altri campi come l'aeronautica alla quale dobbiamo le forme in titanio del Guggenheim di Bilbao – e si lancia quindi alla ricerca di espressioni sempre più plastiche e scultoree, che associamo alla stagione delle archistar.

Nel 2003 apre a Graz, in Austria, la Kunsthaus progettata da Peter Cook – “già frontman della prima band d’architettura della storia” – e da Colin Fournier, e subito viene additata come archetipo delle “bolle” indeterminate nate per velleità di digitale. Un errore giudicarla in quanto sola forma, ci faceva notare Stefano Casciani nel dicembre di quell'anno sul numero 865 di Domus, una interpretazione superficiale delle accademie moderne e postmoderne: questo alieno “amico” nasce dalle utopie e le realizza, ma soprattutto è un progetto che al centro ha la percezione, l'atto umano di abitare sensorialmente un'esperienza.

Domus 865, dicembre 2003
Domus 865, dicembre 2003

Atterraggio a Graz

“The love is gone. The poetry in bricks is lost”: l’amore se n’è andato, la poetica del mattone è perduta. Così, già quasi quarant’anni prima della fine del secolo scorso, gli Amazing Archigram davano l’addio al compromesso modernista tra avanguardia e vernacolo.
Ora la costruzione della Kunsthaus di Graz, che Peter Cook – già frontman della prima band d’architettura della storia – ha da poco completato con Colin Fournier, arriva come ironica rivalsa, un potente ceffone assestato sulla faccia della critica accademica modernista e post, sempre pronta a schizzinosi distinguo tra il dire e il fare.

La stessa critica che aveva travisato il pensiero dei primi profeti di un’architettura pop: come Siegfried Gideon, che dei loro edifici sognati ebbe a dire “assomigliano sempre di più a macchine che non lasciano spazi di respiro e che negano completamente le necessità di un habitat umano” o, peggio ancora, come volle dire a suo tempo lo storico Kenneth Frampton “Archigram era più interessato al fascino seducente dell’immagine spaziale (…) ai toni apocalittici di una tecnologia della sopravvivenza che non ai processi di produzione o all’importanza delle tecniche avanzate”.

Domus 865, dicembre 2003
Domus 865, dicembre 2003

Ovvero fischi per fiaschi, come scambiare per catastrofiche le visioni più ottimistiche mai espresse per il futuro dell’architettura. Tale era stata ed è rimasta a lungo la carica provocatoria di quei progetti da vedersi negata perfino la loro ispirazione fondamentale: l’uso realistico della tecnologia per ottenere edifici concreti la cui configurazione andasse un po’ più in là del naso dei pifferai dell’International Style.

La Kunsthaus di Graz sta ora finalmente a sbugiardare accademici vecchi e nuovi: quelli che subordinano la qualità formale e progettuale della costruzione ad un nuovo lassez-faire, alla confusa ideologia di una visione neocapitalista della città. Che è invece per Peter Cook un giardino, un giardino di idee, episodi singolari e distinti, fiori che sbocciano sotto la pioggia dello spread e dell’inquietudine. Anche questo è forse un fiore o forse proprio un “alieno amico”, secondo la definizione che Peter Cook nel suo ultimo libro The City, Seen as a Garden of Ideas usa più frequentemente per il progetto.

Domus 865, dicembre 2003
Domus 865, dicembre 2003

Certo è innegabile la sensazione di un qualcosa “dallo spazio esterno” che si avverte arrivando dal Centro antico della città e intravedendo dall’altra parte del fiume la Kunsthaus, come una nuvola solida materializzata intorno alle opere d’arte di “Einbildung”, la mostra che la inaugura: e che guarda caso è proprio una mostra sulla visione, o meglio su quell’insieme di fenomeni percettivi che formano l’illusione di percepire almeno uno, tra i tanti, aspetti della realtà, quello che ci viene trasmesso dagli organi della visione. E che Peter Pakesch, curatore della mostra nonché direttore della Kunsthaus, sembra mettere sullo stesso piano dell’arte, specialmente nel bel catalogo.

Domus 865, dicembre 2003
Domus 865, dicembre 2003

Si potrebbe dire che in fondo ogni percezione visiva è arte, lo sanno bene gli artisti d’oggi e chiunque – dopo una frequentazione più o meno lunga di musei e gallerie – si sia trovato a guardare persone, cose, pezzi di città, come fossero altrettante opere. Lo sanno anche Cook e Fournier che, nell’affrontare nel corpo della costruzione il nervo scoperto dell’illuminazione, giungono a un compromesso tra intenzione scultorea (di cui è permeata tutta la forma della Kunsthaus) e necessità della visione, appunto: così da combinare – all’interno dei bizzarri peduncoli che punteggiano la copertura della Kunsthaus rendendola simile a un’oloturia spaziale – il flusso di luce diurna e la luminescenza di spirali al neon. Così come l’architettura si propone di interagire con dolce violenza sul contesto circostante.

Passanti, visitatori, cittadini, terrestri o alieni, non potranno ignorare questo gesto costruttivo, che sta alla storia delle utopie nell’architettura contemporanea come i saggi di Zygmunt Bauman, l’autore de La società sotto assedio, stanno a quella dell’analisi sociale.

Domus 865, dicembre 2003
Domus 865, dicembre 2003

Se per Bauman “gli equivalenti liquido-moderni delle Utopie del passato non riguardano più né il tempo né lo spazio, bensì la velocità e l’accelerazione”, l’alieno amico di Cook e Fournier è proprio un momento felicemente raggelato nella corsa spericolata dell’architettura di Archigram verso il futuro, l’ignoto.

Forse Utopia, per chi ci crede ancora e almeno per un po’, ai giorni nostri s’è fermata a Graz.

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