Restauro e futuro: l'eredità visionaria di Andrea Bruno (1931-2025)

Dall’Unesco all’Afghanistan, da Torino a Bruxelles, gli interventi dell’architetto autore del Castello di Rivoli hanno ridefinito il modo di dare nuova vita all’architettura storica, mettendo il contemporaneo in dialogo con l’antico.

“La trasformazione è l’unica garanzia di conservazione delle memorie attraverso l’architettura”, aveva detto Andrea Bruno (1931-2025), intervistato dal Giornale dell’Arte nel 2014, all’apertura della sua retrospettiva veneziana.
E così, in una tanto potente one-liner, l’architetto che ci ha lasciato a luglio, a 94 anni, era riuscito a sintetizzare i decenni di una carriera dalla dimensione globale, in cui aveva portato una vera rivoluzione nel pensiero del restauro e della valorizzazione del patrimonio culturale: in anni in cui “restauro”, “contemporaneo” e “tecnologia” – non stiamo a scomodare la high-tech – erano tollerate purché non si fossero presentate assieme, e tanto meno assieme in pubblico, i suoi interventi che completavano l’antico con un “nuovo” distinguibile e dialogante avrebbero presto fatto scuola.

Torinese di nascita e di formazione – politecnica – Bruno avrebbe presto rivolto il suo operato fuori dalla terra di origine, insegnando a Milano e in Belgio, operando tra Europa, Nord Africa e Asia, diventando dal 1974 consulente per l’Unesco, attività che lo avrebbe portato agli studi per la preservazione del minareto di Jam e dei celebri Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, distrutti dai talebani nel 2001.

Andrea Bruno, Casa-studio per Ezio Gribaudo a Torino, 1974 (oggi sede dell'Archivio Gribaudo). Foto Allegra Martin

I suoi progetti di restauro sono progetti che, come racconta la sua frase-manifesto, scrivono sempre un capitolo nuovo nelle storie delle architetture su cui intervengono, identificando più che uno stile, un approccio relazionale con l’antico: basta pensare alle Brigittines di Bruxelles dove una chiesa barocca viene raddoppiata da un suo gemello contemporaneo per poter rinascere come centro per le arti performative, all’allestimento del Mao (Museo d’arte orientale) a Torino, o al restauro del castello di Corte, in Corsica, diventato sede universitaria.

Ma due suoi progetti, due dei suoi più rilevanti “ritorni in patria”, restano come landmark di una vicenda tanto ricca. Uno è il Castello di Rivoli, il primo museo d’arte contemporanea istituito in Italia, restaurato tra il 1979 e il 1984: è un lavoro su un incompiuto illustre, una residenza dei Savoia avviata da Filippo Juvarra e mai portata a termine, e questo incompiuto veniva non nascosto ma valorizzato, attraverso diversi gradi di intervento. Due sale venivano completate quasi filologicamente, mentre le maniche rimaste tronche venivano integrate con le nuove strutture in acciaio e vetro dei vestiboli e dei tetti, con una scala in metallo e acciaio sospesa a tutta altezza, col dettaglio diventato poi simbolo, di una piccola capsula reticolare che sbalza sopra l’ingresso dall’ultimo piano.

C’è poi la casa realizzata per l’artista Ezio Gribaudo, nella prima collina torinese, che esplora lo stesso principio di dialogo, ma alla scala urbana. È un saggio di brutalismo come relazione tra l’intervento scultoreo e il paesaggio storico che lo circonda: una relazione che questa architettura intavola con l’esterno – aprendosi in una sequenza di vedute quasi pittoriche mano a mano che si sale lungo i vari volumi cubici in cemento a vista – ma anche verso l’interno, dove nell’ingresso campeggia una scala-oggetto-libreria in legno che si ritaglia nello spazio della casa un ruolo da protagonista.

Una declinazione raffinata del brutalismo come conversazione con le persone e lo spazio, che ritroviamo anche nell’ambasciata italiana realizzata a Kabul, e che sarà riferimento per la pratica di molti progettisti trovatisi negli anni successivi a dover prendere posizione su come far continuare la vita delle architetture attraverso la storia.

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