Rowan Moore visita il nuovo terminal del porto di Yokohama, discusso e ambizioso tentativo dei Foreign Office Architects per ricreare il paesaggio della città.
Fotografia di Satoru Mishima
Da un po’ di tempo Yokohama rappresenta il biglietto da visita degli architetti della nuova generazione: un po’ come fu a suo tempo Parigi con il Centre Pompidou, così oggi la città giapponese è il manifesto di un’altra generazione. Farshid Moussavi e Alejandro Zaera-Polo (ovvero i Foreign Office Architects, FOA) avevano appena trent’anni quando, nel 1994, vinsero il concorso per il terminal portuale, un progetto rinomato nel mondo dell’architettura, già per tutto il tempo della gestazione e della costruzione.
La realizzazione è stata una storia lunga e complicata. Per quattro anni non è successo niente, e forse nelle alte sfere qualcuno sperava che il progetto abortisse. I sindaci andavano e venivano, l’economia nazionale era sempre più in crisi, il funzionario incaricato del progetto finì per nascondere sotto una coperta il plastico nel suo ufficio, per evitare che vedendolo la gente si facesse delle idee strane. Ci vollero due anni per definire un contratto per uno studio di fattibilità della durata di tre mesi: il punto di arresto era il rifiuto dei FOA di cedere il ‘copyright’. Furono proposte misure per arrivare a una riduzione dei costi (per esempio il ricorso alle colonne di sostegno nei due grandi saloni del terminal o l’uso della moquette invece del legno per i pavimenti), misure che però avrebbero gravemente guastato il progetto.
“Non abbiamo mai fatto tanta fatica” – dicono i FOA – “e non credo che ne faremo mai altrettanta”.
Benché la generazione cui appartengono Frank Gehry, Robert Venturi, Piano e Rogers, Rem Koolhaas, Daniel Libeskind comprenda personalità molto diverse, nei loro lavori si nota sempre un’attenzione e una simpatia per il contrasto, la giustapposizione, lo stacco: comprensibile reazione al tardo International Style, l’architettura levigata e uniforme della globalizzazione commerciale. Mies van der Rohe, che negli anni Venti progettò un monumento alla rivoluzionaria comunista Rosa Luxemburg, negli anni Sessanta costruiva banche. Certi studi di architettura americani, come SOM, nel corso del tempo hannno smussato il modernismo in manifestazioni di potere aziendale, neutre e senza complicazioni, come il logo di una multinazionale.
Oggi la finanza globale indossa altre vesti, professa il multiculturalismo e l’amore per il pianeta, adotta il contrasto e la giustapposizione come espedienti ‘artistici’ per i centri commerciali e i parchi a tema. Il volto del grande guadagno non è più quello garbato del blocco di uffici dalle facciate di vetro, ma la maschera tutta sorrisi di un complesso turistico a Las Vegas, o il falso folklore degli Starbucks. E così, poiché sembra che opporre resistenza allo status quo faccia parte del compito dell’architetto, la generazione di Yokohama è alla ricerca di un’armatura concettuale e di un’integrità fisica che resista alla logica del “taglia e incolla” tipo centro commerciale. Il terminal di Yokohama non può facilmente essere trasformato in un parco a tema. I FOA conservano l’amore di Koolhaas per la complessità e la dinamica delle città moderne, ma dichiarano audacemente che la loro “sensibilità si riallaccia a Mies van der Rohe. Facciamo progetti che contribuiscano a dare al mondo ordine e coerenza”. La generazione più giovane ha anche un po’ in sospetto il mito dell’architetto-genio-superstar, cresciuto intorno a figure come Frank Gehry e Richard Meier. Che lo vogliano o no, queste figure corrono sempre il rischio di diventare dei marchi di fabbrica a tutti noti e familiari, che possono finire però per avere la meglio sul reale talento che sta alla base.
Così i giovani professionisti preferiscono creare studi diretti da due o più persone, con nomi che suonano piuttosto impersonali e pratici: come Foreign Office Architects, appunto. La loro non è una posizione da missionari, come quella dei colleghi della generazione precedente: prima vogliono costruire, e poi teorizzare.
Gli architetti sono sempre in bilico fra resistenza e arrendevolezza, fra i valori della cultura della committenza e la propria coscienza creativa. Alcuni, come Libeskind per esempio, hanno dimostrato posizioni estreme di resistenza all’inizio della carriera, seguite poi da livelli ancora maggiori di arrendevolezza. Con i FOA il processo sembra inverso: abbastanza arrendevoli all’inizio, per poter cominciare a costruire in giovane età: ma poi con Yokohama hanno trovato il modo di trasferire la resistenza nella costruzione stessa.
L’International Port Terminal è un complesso destinato ai trasporti, un luogo di continuo flusso. Il progetto si fonda, dicono gli architetti, sulle dinamiche del movimento. Non ci sono pareti: ci sono solo pavimenti curvati in su ai bordi, soffitti curvati in giù, e vetro. Il complesso è costruito sopra l’acqua: una sorta di molo oblungo, un luogo fra terra e mare, fra la città di Yokohama e la gente di tutte le nazionalità che vi approda dalle navi da crociera e dai traghetti. Eppure, in questa tipica città giapponese, dove le case sembrano fatte di materiali inconsistenti e di solito le insegne sommergono l’architettura, questo terminal mostra solidità e sostanza.
Niente è nascosto. La poderosa struttura d’acciaio è anche la superficie, rivestita di legno solo nei piani di calpestio. Per tutti i suoi 450 metri di lunghezza c’è coerenza e grande sobrietà nei materiali e nei dettagli: acciaio, legno, vetro, ancora acciaio per i corrimani di acciaio, asfalto per il parcheggio. Di solito invece, nella città giapponese, una struttura di questo tipo sarebbe tutta una profusione precaria di immagini, materiali, dettagli. Il terminal è insieme un’entità fisica e corporea: ossa d’acciaio e pelle di legno, più schermi, inferriate, luci, sedili, come l’equivalente di unghie e capelli. E come un corpo, l’edificio ha un dentro e un fuori: ma, come in un corpo, la superficie esterna diventa interna senza che si avverta un confine preciso fra l’una e l’altra. È una struttura quasi simmetrica disposta lungo un unico asse, e la sua superficie è in parte ondulata e in parte piegata. Nelle sue viscere ci sono passaggi e camere come ‘pance’.
La sua pelle mostra segni di rughe, suture e tatuaggi. Sta sull’acqua ma, paradossalmente, costituisce un momento di stabilità e di calma nell’instabile città. Ha una consistenza e un’integrità che in questi tempi di usa-e-getta è quasi donchisciottesca. Non assomiglia all’architettura giapponese né alle infrastrutture giapponesi (specie le grandi autostrade di cemento a più livelli che sono l’ossatura delle metropoli). Naturalmente, essendo un complesso destinato ai trasporti, è una infrastruttura, ma non al modo delle autostrade. La sua importanza va oltre i requisiti strettamente funzionali. Come osservano gli architetti, una costruzione realizzata con un decimo del budget impiegato (23,5 miliardi di yen, quasi 400 milioni di euro) – e perciò di scala molto più modesta e meno elaborata – avrebbe potuto egualmente svolgere il suo compito: accogliere sessanta navi da crociera all’anno, oltre che un certo numero di navi traghetto e d’imbarcazioni destinate al giro turistico del porto di Yokohama. Diversamente dalle autostrade, non avrebbe avuto bisogno di una struttura così possente.
Il terminal è però anche uno spazio civico, una sorta di piazza cittadina o di parco sull’acqua: o, come dicono gli architetti, una spiaggia artificiale dove la gente può passeggiare, prendere il sole, sbaciucchiarsi, fare un picnic, partecipare a feste e assistere ai fuochi d’artificio. Spesso queste sono solo fantasie, alle quali gli architetti amano abbandonarsi quando si tratta dei loro lavori: qui a Yokohama invece si realizzano. Si spera che in futuro vengano aggiunti altri elementi galleggianti – spazi per spettacoli, alberghi ecc. – per i quali l’edificio del terminal potrà diventare uno splendido foyer.
Il suo duplice ruolo di struttura per i trasporti e di spazio civico – una specie di aeroporto Kennedy e di Central Park messi insieme – si svolge entro due grandi ambienti con la copertura a volta: uno è il Salone degli arrivi e partenze per le navi, l’altro è il Salone civico destinato a ospitare manifestazioni ed eventi pubblici. Contro ogni logica apparente, questo secondo salone è situato all’estremità del molo dalla città, mentre il Salone degli arrivi e partenze è vicino alla terraferma, per far sì che i due mondi si sovrappongano. Un insieme di pavimenti ricurvi, di rampe e di tetti ondulati collega i due saloni.
Questo terminal è evidentemente una struttura di prestigio, costruita con l’intento di attirare l’attenzione su Yokohama. Terza città del Giappone, non mostra alcuna soluzione di continuità con il tessuto urbano di Tokyo: non meraviglia quindi la sua ansia di affermare la propria identità e la propria indipendenza.
Il terminal vuole essere un simbolo della trasformazione urbana, del genere Guggenheim Bilbao, con il quale ha qualche somiglianza superficiale: gli irrazionali elementi a curva doppia, l’apparente libertà della pianta che, da Gehry in poi, sono diventati i segni onnipresenti delle ambizioni di un centro urbano. Insomma, l’architettura come racconto di viaggi, e le forme ondulate coerenti con l’ubicazione marina.
Eppure sarebbe troppo facile etichettare il terminal come ennesimo esercizio di espressionismo spinto, fra i tanti fioriti dopo Bilbao. Il terminal di Yokohama resiste ai tentativi di considerarlo al pari di un’icona o di una cartolina postale. Lo si guarda dalla baia, e non è niente di particolare. Ci si avvicina da terra, e si presenta come il portale di un complesso piuttosto comune – anche se certe affascinanti ‘escrescenze’ fanno intuire che qualche cosa di particolare c’è. Soltanto quando si entra e lo si usa, se ne scoprono le qualità. Allora non viene da pensare alle ondulazioni dell’edificio come metafore delle onde del mare. Il fatto è che esso nasce come infrastruttura e al tempo stesso come progetto di prestigio, ma in realtà non è né l’una né l’altro. È un monumento, e non lo è. Certo, ha tutte le caratteristiche del monumento, ma poi viene sentito e vissuto come un insieme di sequenze, non come un oggetto unico e, appunto, monumentale. Sotto le sue forme fuori del comune si cela una serissima strategia di progetto: all’inizio sono stati stabiliti i principi generali, le cui conseguenze e implicazioni sono state poi sviluppate nel corso del lungo processo di progettazione, di disegno dei dettagli, di costruzione e d’uso.
La struttura è “un ibrido fra paesaggio e costruito”, in cui un elemento del programma iniziale – un giardino pubblico/luogo di incontro di 500 metri quadrati – è stato ampliato fino a comprendere l’intero progetto. Tutti i 27 mila metri quadrati del terminal sono oggi considerati un giardino, un parco, un paesaggio pubblico. Il paesaggio e l’assenza di segni di confine danno forza all’idea che “il suolo dovrebbe essere ininterrotto” e che “la divisione convenzionale fra livelli (e fra interno ed esterno) è diventata indistinta”.
Di qui, i pavimenti che si incurvano, salgono, scendono e sfociano in rampe; di qui l’uso degli stessi materiali all’interno e all’esterno. Il desiderio di sfumare i confini ha generato un particolare modello per i percorsi di circolazione. “Moli e terminal”, dicono i FOA, “di solito hanno una struttura lineare, si entra o si esce seguendo una sola strada. Sono come cancelli di confine fra un Paese e un altro: ma oggi ormai la gente attraversa continuamente i confini, e quindi i progetti come questo non devono più agire come barriere. Noi volevamo uno spazio non decisamente definito e orientato, che diventasse parte della città. Volevamo che questa opera non apparisse come una pura e semplice infrastruttura, stabilire un rapporto simile a quello che una normale città ha con il suo sistema di metropolitane. Così abbiamo pensato alla circolazione come a una serie di anelli di raccordo e collegamento”. In tutto l’edificio il visitatore si trova a dover sempre scegliere fra destra e sinistra, fra su e giù: per spostarsi nel terminal ci sono molti modi diversi, e molti sono i punti d’incrocio e intersezione che i passeggeri e i cittadini hanno a disposizione.
Infine, l’edificio ha una “presenza tettonica”. La struttura basata sull’acciaio che si piega rende il complesso una “via di mezzo fra la costruzione navale e l’origami”. L’intenzione comunque non era quella di far sembrare il terminal una nave, ma di “dargli le caratteristiche fisiche, più che le forme” del paesaggio portuale che lo circonda. Queste intenzioni, combinate con le pressioni esterne, creano le dinamiche che danno forma all’edificio. La posizione fuori centro delle fondazioni su cui il terminal è costruito genera una asimmetria nella pianta, altrimenti simmetrica. Vincoli di tipo pratico richiedono su un lato la presenza di un ardito elemento a sbalzo. Mentre le rampe racchiuse in tunnel d’acciaio ad andamento non lineare funzionano anche come gigantesche travi di sostegno delle volte di copertura dei saloni, che non hanno colonne intermedie – e questi elementi di acciaio hanno una forza quasi ‘geologica’. Il tetto è “una conseguenza di ciò che c’è sotto”, e fluisce alzandosi e abbassandosi per coprire e collegare i due saloni sottostanti. Nella pavimentazione di legno, che segue la geometria del terminal, sono incassati griglie e portelli di accesso per l’ispezione, così che l’insieme appare simile a un complesso pavimento a intarsio.
Eppure Moussavi e Zaera-Polo insistono nell’affermare che nessuna di queste scelte fuori del comune è nata da considerazioni di gusto o estetiche: esse non sono che l’esito di alcune particolari situazioni e di alcuni principi rigorosamente perseguiti, anche se con delicatezza e sensibilità, fino al loro logico risultato. Gli autori la definiscono “una struttura per sorprendere”, “una tecnica artistica alienata”, paragonabile alla scrittura automatica dei Dadaisti. E ritengono anche che la tecnica sia una conseguenza del fatto che sono in due a progettare e a costruire: “Le decisioni devono sempre essere giustificate. Non possiamo semplicemente chiederci: ci piace o non ci piace”.
Questa tecnica è dunque una forma di funzionalismo, ma non il funzionalismo ‘prosaico’ di cui fu accusato il Movimento moderno. Non comporta la capitolazione di valori e desideri, ma esprime piuttosto la convinzione che questi valori e questi desideri debbano essere contenuti nelle scelte funzionali, e non imposti o sovrapposti. “Il nostro approccio”, affermano i FOA, “certamente esprime desideri e aspirazioni, ma formulati a un livello diverso”. Fondamentali sono anche per Yokohama le convinzioni dei FOA sulla natura dello spazio pubblico contemporaneo e sulla cultura dei trasporti, inserite nel DNA del progetto fin dai momenti iniziali.
Questo testo è stato scritto per il British Council in occasione della Biennale di Architettura di Venezia.
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- 26 settembre 2002