Alberto Campo Baeza porta la dignità del centro storico di Granada in un’area periferica. Ne parla Rowan Moore
Fotografia di Roland Halbe/artur
Granada è una città estrema. Da una parte si trova l’Alhambra, l’opera architettonica più abile e inebriante del mondo. Dall’altra vi sono le periferie, la tipica immagine europea di ‘edge city’ con qualche particolare alterazione locale: ipermercati Carrefours, superstrade, fattorie in stato di abbandono, insegne e polvere. In un distorto omaggio alla storia islamica della città, gli isolati di abitazioni a basso costo sono dotati di una inusuale abbondanza di cupole, opere in ferro e intonaci a macchie di colori stridenti: rosa, albicocca e terracotta. La Caja General de Ahorros di Granada di Alberto Campo Baeza si erge in questo sciatto paesaggio urbano, e si dichiara subito non come un alleato contestualizzato degli edifici circostanti, ma come un atto di critica silenziosa. È un edificio che affronta i temi di tempo, profondità, peso, sostanza e complessità. Se il piano su cui giace si potesse inclinare, la sensazione è che tutte le inconsistenti baracche commerciali scivolerebbero via, lasciando solo i quattro isolati della banca, ben radicata nel terreno.
La banca si erge come la Nationalgalerie di Mies van der Rohe a Berlino, su un basamento che tiene distante l’ambiente circostante. La distesa pavimentata non è pensata per essere uno spazio pubblico celebrativo, ma per creare un livello di silenzio in mezzo al frastuono visivo. È dignitoso ma distaccato. Il basamento viene penetrato da due patii di uguale dimensione, uno per dare alloggio ad alberi d’arancio e specchi d’acqua, l’altro per le auto.
Al contrario del tetto sospeso di Mies, Campo Baeza aggiunge ulteriore peso alla composizione, una forma quasi cubica di cemento sul basamento che si avvicina all’idea del mausoleo, oppure alle strutture ultra-simmetriche ispirate dalle visioni mussoliniane dell’EUR. Si salva dall’essere come questi precedenti grazie ad alcune abili variazioni, presagio di un gioco di forza e leggerezza che continuerà all’interno. Sui lati assolati la facciata presenta un cassettonato fatto da un brise-soleil di esagerata profondità; le facciate a nord-est e nord-ovest sono sottili e piatte, in modo che la gente all’interno possa avvicinarsi il più possibile alla luce. Tra gli opposti dell’ultra-piatto e dell’ultra-scolpito si instaura un’oscillazione che con delicatezza destabilizza la monumentalità del quasi cubo e introduce un elemento di dubbio, sul fatto che gli elementi che affermano di essere così massicci lo siano realmente.
All’interno il visitatore giunge subito all’atrio centrale, “l’impluvio di luce” – come lo chiama Campo Baeza – intorno al quale ruota tutto il progetto. Con quattro colonne di calcestruzzo che persino a Karnak sembrerebbero enormi, esso mira a una grandezza quasi paradossale. Allo stesso tempo vi sono due muri costruiti con il più delicato dei materiali: alabastro traslucido tagliato sottile come prosciutto di Parma. I dettagli dei muri di alabastro e le sue piccole finestre quadrate alludono chiaramente ai massicci muri di un castello: eppure sono chiaramente leggeri e fragili, e gli altri due muri di vetro riescono a sembrare più solidi della pietra. Al di sopra vi è una massiccia lastra di calcestruzzo, profondamente cassettonata come i prospetti: qui la luce entra attraverso quattro gruppi di tre lucernari che hanno la forma di un mezzo cubo, ognuno di 3x6x6 metri, posizionati in modo da inondare ogni colonna con la luce del sole. La lastra di calcestruzzo fa parte dello stesso monolito delle colonne, e sembra sul punto di schiacciare le fragili lamine in vetro e alabastro sottostanti.
L’atrio è una versione dei tanti patii, corti e piazze urbane su forti pendenze che si trovano in molte città calde del sud, e possiede una scala variabile che gli permette di essere spazio urbano e domestico allo stesso tempo. Al suo interno il tempo viene come registrato: lungo i muri i raggi di luce solare camminano, creando strani teatri d’ombra sull’alabastro, e alla fine si innalzano e si uniscono al tramonto, inondando l’intradosso della lastra di copertura con luce rossa. L’atrio registra anche i tempi della storia: la corte e le colonne sono arcaiche e archetipiche, eppure le colonne in calcestruzzo potrebbero essere dello stesso tipo che sostiene la vicina autostrada. L’alabastro è antico, ma si presenta come un sottile materiale moderno. C’è poi il travertino, materiale dei Romani e di Mies, usato come pavimento e sulle pareti: che come scogliere si proiettano dentro la stanza, mentre i muri di vetro, e le viste che offrono sui controsoffitti riaffermano quel ‘vernacolare’ abusato negli edifici moderni per uffici.
L’atrio definisce gli spazi interni, e gli uffici vi si affacciano dentro; è uno spazio che rimane impresso nella mente anche quando non si vede. Salendo all’interno dell’edificio, si raggiunge infine una terrazza al di sopra di una parte degli uffici, un quasi-interno in cui il possente tetto diventa un cielo virtuale. È allo stesso tempo intimo e imponente: le sedie delicate di Aalto, Eames, Jacobsen e Pensi sembrano adagiate in modo leggiadro su questa formazione rocciosa di geologia geometrica.
La qualità essenziale della banca è il suo giocare con il paradosso, le simultaneità di pesante/leggero, forte/fragile, piccolo/enorme e antico/moderno. Le colonne sono inverosimilmente enormi e le finestre nel muro di alabastro incredibilmente piccole: eppure coesistono allegramente. L’ambiente circostante la banca possiede anch’esso curiose opposizioni di scala e peso, accostamenti confusi e incoerenti di torri, isolati e strutture stradali. La Caja General s’impossessa di questa dissonanza e le conferisce una forma.
Bisogna dire purtroppo che la qualità delle finiture dell’edificio è scarsa, con il travertino che porta i segni degli incidenti di cantiere, e i fuori piombo messi in forte rilievo dalla luce del sole. Questo non è Mies, e il progetto meriterebbe una migliore realizzazione, ma alla fine l’edificio ha comunque la meglio sui dintorni: dall’altro lato della strada si trova la sede del principale concorrente della Caja General, la Caja Rural. La sua sede è un comune edificio, con una facciata continua a vetri che si può trovare in qualsiasi altro posto nel mondo.
A dispetto della Caja Rural, questa si ritrova con l’immagine dell’enfatico cubo della Caja General riflessa sulla propria facciata: la forza del branding della concorrenza viene così moltiplicato a sue spese. Perciò ora la Caja Rural è ricoperta da teloni pubblicitari multipiano, con enormi immagini di clienti sorridenti. Si potrà così eliminare il riflesso, ma non nascondere il fatto che la Caja General ha comunque un edificio più imponente e appagante alla vista.
Granada. La monumentalizzazione del marginale

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- 13 maggio 2002