Tadao Ando: “Il mondo deve cambiare”

Tadao Ando racconta il proprio modo di affrontare l’architettura e la vita, mutuato dalla boxe. Convinto della necessità di cambiare per affrontare le sfide globali, ci invita a coltivare la nostra forza interiore, “a rimanere verdi, acerbi e ricchi di spirito, come le mele”.

Sul lavoro, ormai leggendario, di Tadao Ando – o più correttamente Ando Tadao – è stato scritto molto, ma non sempre propriamente. sempre propriamente. Ando infatti non è semplicemente un architetto di immenso successo e grande fascino, quindi la quintessenza di un’archistar, ma piuttosto un intellettuale a tutto tondo, che è stato capace in oltre 50 anni di attività di esprimere una visione di prima grandezza nello scenario culturale del secondo Novecento. Una visione che ha incontrato, e usato, l’architettura e, in parte, il design per riproporre un approccio alla vita e al cosmo che la contemporaneità aveva dimenticato.

Per collocare Ando nel contesto che gli pertiene di diritto, non basta sviscerare nel dettaglio le sue opere: occorre andare a fondo della loro essenza, in cui le influenze del Modernismo, soprattutto di Le Corbusier, sono solo l’infrastruttura apparente al di sotto della quale pulsa
e scorre il pensiero tradizionale, in particolare Zen, che è la vera fonte energetica di Ando. Quella di Ando non è tanto una ricerca di soluzioni abitative: è una forma mentale, uno stato dello spirito che dipende largamente dalla nostra intuizione. Le sue architetture ci riportano al nostro vero io, all’eterno qui e ora che rappresenta la realtà. I suoi strumenti sono l’uso preponderante del cemento, degli assi, dei punti di luce e dei cerchi concettuali che aprono e chiudono la cifra del suo progetto. Avere la possibilità di visitare o, magari, vivere un’architettura di Ando è una buona occasione per acquisire consapevolezza della nostra relazione interiore con il mondo, è percepire la continuità infinita che persiste e fluisce sotto le finite apparenze. Infine, è sperimentare l’attimo presente ed essere grati per il dono stesso della vita. Poi ci sarebbe anche la compassione, ma di questo parleremo un’altra volta.

Ritratto Tadao Ando. Foto Photo Kinji Kanno

Signor Ando, il suo curriculum e la sua carriera sono assolutamente straordinari. Quando è nato il suo amore per l’architettura?
Dopo aver visto con quanta passione lavoravano gli operai edili nella mia città natale. Vederli mi ha fatto nascere il desiderio di provare a creare qualcosa. Sono cresciuto nel centro di Osaka, in un quartiere fatto di case a schiera di legno. Molte strade della zona erano costeggiate da piccole fabbriche, e io usavo i loro laboratori come un parco giochi. In quel periodo, ho maturato una certa sensibilità per creare oggetti, utilizzando le mani come strumenti. Quando avevo 14 anni, alla mia casa a un piano se ne aggiunse un secondo interamente per opera di un giovane falegname. Per diversi mesi l’ho osservato lavorare dalla mattina alla sera in silenzio, avrei tanto voluto aiutarlo. Quando il tetto fu smantellato, sopra la mia testa apparve uno squarcio: ricordo ancora il bagliore del sole e l’eccitazione che provai mentre guardavo in sù. Dopo quell’esperienza, per me fondamentale, la mia vita professionale ha conosciuto molte fasi: ho fatto il pugile per poi dedicarmi alla grafica e al design del prodotto. Alla fine, i ricordi della mia giovinezza e l’eccitazione emotiva legata al costruire mi hanno fatto imboccare la strada dell’architettura.  

Domus ha avuto qualche ruolo nella sua formazione culturale e professionale?
Negli anni Sessanta aspiravo a guadagnarmi da vivere facendo qualcosa di creativo. In quei giorni, l’Italia era una delle grandi protagoniste nel mondo del design e tutte le informazioni che giungevano da lì fino in Giappone erano un’importante fonte di ispirazione per me. All’epoca, spendevo gran parte della mia paga in costosi libri d’importazione sulla progettazione. Sfogliavo quelle pagine finché non cadevano a pezzi. Domus ha rappresentato uno dei simboli, cardine della mia giovinezza. Il numero con cui nel 1969 fu presentata la Valentine di Ettore Sottsass divenne la mia Bibbia di giovane architetto.
Per inciso, Domus è stato anche il mio primo contatto internazionale con una rivista di architettura. Chiesi di pubblicare uno dei miei primi progetti, l’interno di un caffè completato a Osaka nel 1971, il Café OS 2001. Inviai alla redazione alcune foto e disegni giusto per mettermi in gioco, e fu una grande sorpresa vederli pubblicati nel numero successivo. Sono ancora grato a Domus per avermi dato il coraggio e la fiducia per lavorare in tutto il mondo, oltretutto quando avevo appena compiuto i miei primi passi in architettura. Spero che Domus continui a brillare come un faro di speranza e innovazione per tutti i designer pronti ad affrontare nuove sfide.

La boxe è uno sport solitario, di puro stoicismo, in cui mentre spingi il corpo e la mente verso il loro limite assoluto si genera potenza. Lo stesso vale per l’architettura

Lei era famoso e molto rispettato già all’inizio della sua carriera. Questo elemento ha influenzato la sua evoluzione?
Dato che sono autodidatta e non ho avuto un sostegno finanziario, in particolare nei primi tempi di attività del mio studio, ero sempre disperatamente concentrato sul mio lavoro e non avevo la calma per riflettere e analizzare ciò che accadeva intorno a me. Tuttavia, non credo di avere deciso quale strada prendere sulla base di ciò che la gente pensava di me. Non mi sono mai considerato un esperto di alcun genere. Ma fin dall’inizio della mia carriera, ho avuto numerose possibilità di essere valutato criticamente in culture diverse come quella italiana e fracese. Il mio debutto sulla scena mondiale è avvenuto nel 1982, quando l’Associazione degli Architetti Francesi mi dedicò una monografica a Parigi. A quel tempo avevo costruito solo abitazioni private e piccole strutture commerciali, quindi non avevo idea di cosa aspettarmi all’inaugurazione di una mostra del genere. Durante la conferenza stampa, fui bombardato da domande difficili ma fondamentali, tipiche della mentalità logica e razionale dei francesi.
Mi chiedevano perché usassi il cemento, mentre alcuni critici tentarono di associare la natura stoica della mia architettura con il recupero del wabi-sabi e dei valori giapponesi di base. Poiché ero così distante dal loro mondo, accettai le loro critiche con una mente aperta e per la prima volta feci l’esperienza di vedere i miei edifici con uno sguardo altro, dal di fuori.

Lei è stato un atleta. Quanto sono importanti lo sport e la disciplina nella sua vita e nella sua professione?
In un incontro di boxe, i momenti di tensione in attesa che la campanella suoni sono eccitanti, ma anche snervanti. I nuovi progetti architettonici richiedono la stessa mentalità. Nella boxe, per sfruttare appieno le tue capacità e vincere l’incontro devi rischiare e affrontare il pericolo. Creare qualcosa in architettura – non solo costruire qualcosa, ma creare qualcosa – richiede a sua volta il coraggio di correre dei rischi. Fare un passo in più verso l’ignoto è di vitale importanza. Quando fai il pugile ti prepari per anni per un incontro che può durare anche solo pochi minuti. È una lotta, elementare e primitiva. L’architettura, invece, è una partita molto lunga, molto più lunga di un round di tre minuti, ma la tensione va mantenuta proprio come nel pugilato. A volte gli architetti si sentono appagati per la fama raggiunta e perdono la disciplina, perché hanno dimenticato gli stimoli di inizio carriera, quando puoi fare affidamento unicamente su te stesso. La boxe è uno sport solitario, di puro stoicismo, in cui mentre spingi il corpo e la mente verso il loro limite assoluto si genera potenza. Lo stesso vale per l’architettura. Ogni progetto ha un programma e un budget rigorosi e potrebbe esserci poca libertà in termini di progettazione. Bisogna pensare a ciò che è veramente necessario e a ciò che deve essere costruito.

Tadao Ando. Foto Kinji Kanno

Com’è la sua giornata-tipo?
Cerco di vivere una vita semplice. Mi sveglio presto la mattina, lavoro e vado a letto presto. In termini di esercizio, faccio almeno 10.000 passi al giorno e, dopo il lavoro, vado in palestra. Ho cominciato a seguire questa routine dopo aver subito due importanti interventi chirurgici, nel 2009 e nel 2014. Fino ad allora, avevo lavorato ogni giorno allo stesso ritmo incessante da quando avevo 20 anni. Entrambi gli interventi hanno avuto successo, ma dopo essermi rimesso ho dimezzato le mie ore di lavoro. Questo mi ha dato il tempo di leggere, aggiornarmi di più sugli eventi culturali e occuparmi di ciò che un’agenda di lavoro eccessivamente intensa non mi dava tempo di fare. Immagino di aver perso alcune cose a causa delle mie malattie, ma ne ho certamente guadagnate altre. Mi mancano cinque organi, quindi mi sento molto più leggero e agile di prima!

Qual è il ruolo della cultura tradizionale giapponese nella sua vita e nel suo lavoro?
L’essenza della cultura tradizionale giapponese risiede nella sua visione della natura. Che è in netto contrasto con quella che prevale in Occidente, dove si tenta di controllarla come parte del mondo artificiale. La natura cambia con il trascorrere delle stagioni e il passare del tempo, e quindi le cose che creiamo in natura devono entrare a farne parte. Non è un elemento da conquistare o con cui competere, ma un’entità in sé. Questo insieme di valori, nutrito dal clima temperato e dalle condizioni geografiche di un Paese insulare, fa parte del patrimonio di tutto il popolo giapponese. Non esprimo deliberatamente la cultura giapponese nella mia architettura, ma se chi la guarda ha questa percezione quando la incontra, forse è perché essa è un’espressione inconscia di questa visione della natura che ho ereditato.

Una modifica strutturale delle città verso un futuro sostenibile non può essere attuata esclusivamente attraverso il potere di politici, architetti e imprenditori. È necessario mettere in campo la forza di tutti.

Il riscaldamento globale e gli obiettivi di sviluppo per il 2030 sembrano rendere la sostenibilità un requisito necessario per tutto il pensiero architettonico.
La mia prima presa di coscienza riguardo ai problemi del riscaldamento globale risale al 1972, quando lessi la traduzione del rapporto I limiti dello sviluppo del Club di Roma. Quello studio prediceva un ‘asintoto’ in rapido avvicinamento per il mondo creato dall’uomo. Oltre al grave degrado ambientale e ai problemi energetici, negli ultimi anni il cambiamento climatico ha rappresentato un problema enorme su grande scala.

Cosa può fare l’architettura?
I problemi ambientali, compresi quelli che si manifestano entro i confini delle metropoli, sono in definitiva causati dallo squilibrio tra risorse artificiali e naturali. La soluzione a questo problema nell’ambito dell’ambiente costruito arriva a proporre due estremi: un mondo di ‘cavernicoli’, in cui usiamo molta meno energia, e un mondo high tech dove la tecnologia ci consente di vivere in modo compatto e artificiale, consumando energia rinnovabile. Qualunque direzione scegliamo, le nostre attività urbane come società dovranno essere circoscritte. Il mondo deve cambiare. Ciò che è più importante perché ciò avvenga è condividere la consapevolezza dei problemi e del mutamento dei valori. Una modifica strutturale delle città verso un futuro sostenibile non
può essere attuata esclusivamente attraverso il potere di politici, architetti e imprenditori. È necessario mettere in campo la forza di tutti. Pianto alberi insieme agli altri abitanti di un luogo per far sì che quella forza si manifesti, per far avviare la conversazione. La cosa fondamentale non è l’atto di piantare l’albero, ma curarlo e nutrirlo in seguito. La natura non è un nostro diritto, ma un privilegio. Perché l’ambiente cresca, anche l’umanità deve crescere.

Qual è il suo programma per Domus 2021?
Attraverso l’architettura e il design, vorrei offrire l’opportunità di pensare all’essenza della cultura umana, agli elementi che dovrebbero rimanere costanti mentre il mondo che ci circonda si evolve.

Qualche consiglio per gli studenti di architettura?
Vivere appassionatamente la propria visione e coltivare la propria forza interiore in modo da conservarla per tutta la vita. Le mele e le persone dovrebbero rimanere verdi, acerbe e ricche di spirito per saper affrontare qualsiasi sfida.

Immagine di apertura: Hiroki Nakadoi © Tadao Ando Architect and Associates  

Speciale Guest Editor

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