Arte e design possono davvero convivere?

Ce lo racconta il duo creativo Draga&Aurel, italiano di adozione: designer lei, artista lui, ci accompagnano nel sottobosco creativo del design da collezione: un mondo che nasce dalla tensione costante tra arte e design e dal loro fascino reciproco.

Coppia nel lavoro e nella vita, Draga Obradovic e Aurel K. Basedow elaborano da oltre dieci anni il concetto di art design. Designer di origini serbe lei e artista di origini tedesche lui, si considerano artisti-artigiani che hanno incontrato il design strada facendo, in Italia. Con i loro oggetti e dipinti narrano le gesta del passato, di un design mitico la cui nostalgia è reinterpretata con freschezza. Dal loro atelier sul Lago di Como ci parlano di origini, di nascita e morte dei progetti e dei demoni che insidiano i processi creativi.

Siete un po’ artigiani, un po’ artisti ma anche designer. Come nasce Draga&Aurel?

Draga: Nasciamo dieci anni fa, facendo solo recupero di arredo, reinterpretando sedute e mobili con ciò che avevamo a disposizione, dai tessuti dipinti a mano alle resine. Questo lavoro si intravede nella collezione Heritage. Transparency Matters, invece, nasce come sintesi di questi dieci anni. Il materiale di punta, a cui siamo molto affezionati, è la resina. Negli anni siamo passati dalla resin copy, cioè rivestire le superfici con la resina, alla creazione di oggetti in resina a spessore, contaminandoli con altri materiali che avevano qualcosa in comune, dal vetro fuso al plexyglass, dal metacrilato alla vetroresina – insomma tutti quei materiali che richiedono la tecnologia a stampo.

Aurel: Siamo produttori e questa è la nostra forza. Lavorare sulle resine è un processo lungo, difficile, ed è il motivo per cui lo facciamo internamente, nel nostro laboratorio a Como, così come le decorazioni e gli stampi. Nasciamo prima come artisti, un po’ artigiani, e poi diventiamo designer strada facendo… o forse non lo siamo mai diventati! Non amiamo definirci.

Veniamo entrambi da un percorso artistico, di pittura, al quale sono tornato negli ultimi anni per una necessità personale che ben si unisce alle ricerche sperimentali fatte in passato coi cementizi, muri, pavimenti, decorazioni, resina.

Draga&Aurel, Transparency Matters, 2019. Foto Riccardo Gasperoni
Draga&Aurel, Transparency Matters, 2019. Foto Riccardo Gasperoni

 

Cosa portano con sé gli oggetti che producete? Hanno un valore autonomo, scultoreo, che parla di voi, oppure sono pensati per esercitare un’influenza specifica nello spazio in cui li collocate?

Draga: Il lavoro Trasparency porta con sé sia riferimenti artistici, sia di design storico, che andiamo ad approfondire e ri-raccontiamo. Prendiamo, ad esempio, la Space Age: mi affascina riportare alla luce quel mondo, sapere che dietro un oggetto c’è una storia che non racconta solo uno stile di vita, ma un’idea di società, un’espressione, materiali nuovi, il sogno di approdare sulla luna, un entusiasmo che contamina tutto.

Per cui, quando vado a ricercare queste cose, mi piace ricordarle attraverso un gesto completamente nuovo, chiamiamolo ripotenziamento: guardare con gli occhi del 2020 un oggetto degli anni ’60. Nelle lampade in metacrilato, per esempio, ci sono riferimenti all’architettura Googie, che per 15 anni è stata molto popolare e iconica, poi è diventata quasi ‘brutta’, dimenticata. Poi, dopo un po’ di tempo e torna ad essere iconica. Mi affascina moltissimo contestualizzare certi oggetti e forme nel tempo, proprio come con le lampade Jud, legate al minimalismo di Donald Judd e rinominate così in suo onore.

Per la pittura è un po’ diverso….

Aurel: È diverso. Noi proponiamo un format poco usuale perché la pittura di solito è separata dal design, mentre nel nostro caso è la condizione di partenza. I miei quadri sono creati da me in autonomia e poi confluiscono in un progetto di design, o viceversa. Nasce un dialogo inscindibile tra arte e design e i lavori che facciamo vanno osservati nell’insieme, senza che l’opera d’arte diventi oggetto decorativo.

Draga: È un po’ il dialogo aperto che c’è tra di noi. Chi è l’artista? È lui che dipinge, cercando di esprimere questo mondo intimo, meditativo… Oppure sono io? Perché non posso essere io? Solo perché il mio tavolino lo posso replicare? Insomma, c’è questo dialogo aperto, perché il processo artistico e la presenza durante la creazione è molto forte in entrambi i casi e non è delegabile.

Aurel: È una contaminazione….

Draga&Aurel, Transparency Matters, foto Riccardo Gasperoni
Draga&Aurel, Transparency Matters, foto Riccardo Gasperoni

 

È facile immaginare un’artista che storce il naso di fronte a un oggetto di design per una presunta mancanza di profondità o di coscienza rispetto a ciò che l’oggetto rappresenta. Idem il designer, che potrebbe vedere l’artista arroccato nel suo mondo, lontano dalla società, da una certa concretezza. A voi succede qualcosa di simile? Come risolvete questa divergenza?

Draga: Una volta ho deciso che ero la più creativa.

Aurel: L’ha deciso lei.

Draga: L’ho deciso io (ridono). E lui si è offeso e da lì è nata una discussione…

Aurel: Una discussione che va avanti da anni. Potremmo soffermarci ancora per anni sulla validità, la differenza e la profondità di interpretazione di questa frase. Molto interessante.

Draga: Io l’avevo detto riferendomi alla varietà di oggetti che creo e ai quali penso…  lui fa solo quadri (ride).

Aurel: Io faccio solo 150 quadri all’anno quindi sono molto limitato (ridendo).

Draga: Quindi avevo deciso che io ero la creativa e che lui, noiosamente, dipingeva soltanto. (Ridono)

Sai che c’è? Stiamo creando tanto e siamo molto fertili in questo senso, ma spesso non abbiamo le risposte, non sempre capiamo quello che stiamo facendo. Perché una cosa ti porta a un’altra, si creano le sinapsi, i collegamenti, le connessioni, le reciprocità. E questo si amplifica ancora di più quando c’è una collaborazione con un’azienda e ci si approccia a un altro mondo, a un’altra testa.

Cosa vi muove? Siete spinti da una ricerca gioiosa, dalla curiosità, da uno stato di preoccupazione rispetto a grandi temi oppure da uno stato di contemplazione, di forte intimità o espansività? Qual è il vostro motore? E le cose che realizzate rappresentano chi siete e dove volete andare?

Aurel: Direi che abbiamo la necessità di trovare qualcosa, la sete di scoprire che è dentro di noi come artisti. Questo è un seme di base. Una ricerca di vita che non è più scindibile dal lavoro. Partendo da questo desiderio profondo ci siamo costantemente domandati, fin dall’inizio, “cosa voglio fare?” ma, soprattutto, “a qualunque costo io devo fare ciò che mi sento di fare”. Quasi come una filosofia di vita: io devo essere autentico a me stesso. Non è un indottrinamento, è una cosa insita. Una natura per cui non posso fare altro oltre a quello che voglio fare. Così ti puoi esprimere nel modo migliore…

Draga: Io mi devo innamorare. Devo essere innamorata di qualcosa. Questo qualcosa può cambiare. La passione, l’entusiasmo sono componenti senza le quali io non riesco a fare proprio niente. Poi di tanto in tanto prendo le mie sbandate… L’innamoramento può accadere durante una passeggiata, mentre si va a vedere una mostra, se trovo una poltrona o un oggetto che mi intriga e mi fa scattare l’immaginazione. Èun po’ come vedere le cose nelle cose. Cambiare prospettiva, uscire dai contesti - così la plafoniera del bagno diventa una mega-installazione e il cuscino diventa un quadro.

Aurel: Comunque le idee sono infinte. Le idee sono come un vulcano incontrollabile: poi però le devi realizzare in qualche modo, c’è bisogno di dar loro forma.

Atelier di Draga&Aurel, foto Fabrizio Cicconi
Atelier di Draga&Aurel, foto Fabrizio Cicconi

Quando poi riuscite a realizzare un'opera è come se fosse già finita o è il momento in cui inizia a vivere? Voi come la vedete, un po’ come una fine o come un inizio?

Draga: Anche questa è bella. È sempre un po’ di diverso, per lui e per me.

Aurel: Durante la creazione io sono uno abbastanza solitario, tolti i collaboratori che mi lavano i pennelli e mi spostano i quadri che sono abbastanza pesanti. Io mi trovo un po’ in lotta con me stesso e il quadro, assorbito. Quando poi ho finito mi vengono i brividi per un attimo. Resto sorpreso e più il quadro mi piace più mi sembra di non averlo fatto io, come se fosse un regalo. C’è un primo innamoramento, poi stupore, poi innamoramento vero e proprio per i quadri buoni… e alla fine mi passa.

Daga: Un po’ come il matrimonio…

Draga: Per me è come metter al mondo dei personaggi con cui racconto delle storie. I tavolini Jade, ad esempio, fatti di resina trasparente verde e una base cilindrica in ottone, una volta portati a Nomad Venezia hanno assunto un altro significato, sono diventati le bitte veneziane dove si legano le barche, e abbiamo chiamato l’allestimento “Ormeggi”.

Aurel: Beh, per questo devo fare i complimenti a mia moglie che ha questa capacità. Non è solo una designer che fa prodotto ma riesce a creare spazi “associativi” che hanno un senso anche storico. Interior nel vero senso della parola. Il progetto a Venezia è stato davvero completo.

Draga: Avevamo posizionato alcuni Jade sui gradini di accesso a Palazzo Soranzo e quando l’acqua si alzava restavano sommersi, come se avessero avuto un’altra vita. Meraviglioso.

Draga&Aurel, Ormeggi, allestimento a Nomad Circle Venice, 2019. Foto Filippo Bamberghi
Draga&Aurel, Ormeggi, allestimento a Nomad Circle Venice, 2019. Foto Filippo Bamberghi

 

Qual è invece il vostro nemico? Qual è il mostro che vi impedisce di raggiungere questo stato di grazia, ciò che blocca il flusso creativo?

Aurel: Diciamo che è tutto il bagaglio burocratico che abbiamo attorno contro il quale dobbiamo lottare. A volte ci guardiamo e siamo sfiniti. Una volta litighi con una persona, un’altra ti devi difendere… ci sono una marea di complicazioni organizzative, oltre alla responsabilità per i molti dipendenti. A volte arriviamo a casa e piangiamo e diciamo “ma io voglio solo essere creativo, voglio solo fare le mie cose!”.

Draga: Nel mio caso il nemico è il dubbio. Il pianeta dubbio, quando si posiziona e si trasforma in un pianeta lento che persiste nella casa della creatività, per usare una metafora astrale. È una cosa importante da vivere, ma molto difficile da far entrare dentro e da respirare senza che diventi paralizzante. Però ecco, il dubbio quando paralizza è sicuramente un nemico, ma quando invece lo si accoglie è una grande opportunità di trasformazione.

Aurel: Il dubbio è sicuramente una caratteristica delle persone intelligenti e questa è una consolazione. Gli artisti sono molto afflitti da questo demone, no? Da un lato c’è estasi, convinzione, e sicuramente molta riconoscenza verso ciò che si è riuscito a fare, però da un giorno all’altro si può cadere rapidamente in basso e avere dei forti dubbi sulla valenza di ciò si fa.

E non solo. Anche se un artista dovrebbe credere fortemente in sé, si è sempre dipendenti, in un certo senso, dalla riconoscenza degli altri. Se nessuno in questi dieci anni ci avesse mai detto “ma che belle cose che fate” forse oggi crederei un po’ meno in me. Ma anche quando si ottiene una riconoscenza generale (e lo dico con gratitudine), nel nostro intimo di artisti si può sempre crollare a zero. Almeno per quanto mi riguarda. Ci sono giorni in cui dico: “Ma in realtà io non so dipingere. Ho avuto fortuna in tutti questi anni.” Oppure quando guardo un quadro dico “no, questo non ero io”. Dopo, però, ci aiutano le persone che in dieci anni continuano a credere in noi. È un conflitto innato. Da un lato questa fonte incessante di idee, dall’altro la nostra indole che ci porta al dubbio.

Draga&Aurel, Transparency Matters, foto Riccardo Gasperoni
Draga&Aurel, Transparency Matters, foto Riccardo Gasperoni

Quali sono le vostre origini? E queste origini, accettate o rifiutiate che siano, sono presenti oggi nel vostro lavoro?

Draga: Diciamo che io sono venuta in Italia nell’84, quindi avevo 20 anni, 36 anni fa. Sono venuta per stare un anno perché volevo fare un’esperienza all’Accademia di Belle Arti di Firenze, poi non mi hanno riconosciuto i due anni di accademia che avevo fatto a Belgrado, e ho dovuto ricominciare un po’ da capo. È passato il tempo e, quasi senza volerlo, sono rimasta qui per sempre.

Allora ero jugoslava e molto orgogliosa di tutto quello che era la nostra storia. Anche dell’immagine che avevamo dato di noi nel mondo. Poi sono arrivati gli anni della balcanizzazione, delle guerre, delle atrocità, ed è stata molto dura. Ho cambiato cittadinanza più volte. Da jugoslava a ex jugoslava, poi qualcos’altro, adesso sono serba, e anche italiana.

Quindi diciamo che queste origini sono sicuramente nel mio DNA, quella tempra del popolo dell’est. Questa tenacia che ti fa dire che non c’è mai veramente un problema, che si trova sempre una soluzione, di non fermarsi mai… questo atteggiamento mi ha molto aiutato nella vita.

Da piccola sono cresciuta con delle convinzioni, poi le ho abbandonate, all’età di 16 -17 anni pensavo “non credo sia vero tutto quello che mi stanno raccontando”.

Aurel: Sinceramente non ricordo la domanda perché la sua risposta era talmente lunga...

Le origini.

Aurel: A dire il vero non riesco a identificarmi con ciò che faccio… con ciò che sarei in azione.

Draga: Si chiama meccanismo di rimozione.

Aurel: Tu dici? Io sono partito per un motivo puramente romantico. La decisione di venire in Italia, come è scritto nel mio curriculum, era il suono delle rondini e il profumo del mare a Vernazza, in Liguria. Avevo quattro anni la prima volta, la seconda sei o sette, e da lì in poi dentro di me è nato questo desiderio. Poi a 26 anni dopo aver fatto il militare ho fatto un apprendistato di falegnameria, poi ho caricato la macchina, e sono venuto qua. Sono 30 anni ormai… e non riesco a identificarmi bene come soggetto germanico.

Draga: Poi se vedi la sua pittura, si capisce che sei tedesco. (Aurel protesta dicendo che sono opinioni ma lei insiste). C’è la matericità di Anselm Kiefer, c’è la pennellata di Richter.

Aurel: Io mi identifico fortemente come stile e come emozioni con l’espressionismo americano degli anni 50’ e 60’. È una cosa che mi viene naturale. Va bene, mi piace tanto Joseph Beuys e la sua teoria dell’Erweiterter Kunstbegriff (concetto ampliato dell’arte, ndr) che anche noi in un certo senso stiamo praticando. Come ho detto prima, e non vorrei essere presuntuoso, facciamo molta fatica a far capire alla gente che questa è pittura, non decorazione. È artdesign! Questa è la nostra visione dell’arte. Allargata (dicono insieme).

Qual è l’oggetto che avreste voluto disegnare ma che aveva già realizzato qualcun altro?

Draga: Magari non è un oggetto ma una persona… ti direi Gio Ponti. Ammiro quelle figure che hanno segnato una rottura rispetto all’architettura, allo stile, alla decorazione, che hanno modellato il mondo, mettendo così tanta identità nelle cose che facevano. Quindi sì, vorrei essere Gio Ponti. Draga Ponti!

Draga Obradovic e Aurel K. Basedow. Foto Piero Gemelli
A sinistra Draga Obradovic, a destra Aurel K. Basedow. Foto Piero Gemelli

Draga & Aurel ha aperto i battenti nel 2007 sul lago di Como e oggi conta circa 20 dipendenti in due sedi: lo showroom con ufficio amministrativo e studio creativo e il laboratorio artigianale in cui prendono vita le loro creazioni. Draga Obradovic ha iniziato la sua carriera nel mondo della moda come designer tessile tra Londra e Milano, mentre Aurel K. Basedow si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera. Iniziano l’attività con il restauro e il recupero di oggetti di modernariato e oggi i loro lavori spaziano dall’arredo alla pittura, dal progetto di interni all’allestimento. Sono presenti nei più noti circuiti del design da collezione e hanno collaborato con aziende quali Baxter, Wall&Deco e Anthropologie. Gli ultimi lavori sono stati esposti Nomad Venezia e Nomad St. Moritz prima del lockdown. Li vedremo ancora alla prossima edizione di Edit Napoli, dal 16 al 18 ottobre 2020.

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