Patricia Viel, dalle barche all’architettura: “la durata è una garanzia di reciproca saggezza”

L’amore per il mare, l’esercizio rigoroso impartito dalla progettazione nautica, ma anche la ridondanza come esigenza primaria nella rigenerazione urbana. Intervista a tutto campo con l’architetta milanese.

Saldamente al comando con Antonio Citterio di uno degli studi tra i più milanesi e al tempo stesso internazionali d’Italia, Patricia Viel è abituata a misurare le parole – che tuttavia dispensa con naturalezza e generosità – così come controlla il tratto e l’impatto dei suoi interventi architettonici. 
Per il Gruppo Ferretti ha appena finito di disegnare, insieme a Citterio, gli interni della Custom Line Navetta 30, mentre Filippo Salvetti si è occupato degli esterni di questo yacht che unisce una linea classica, quasi senza tempo, al dinamismo di uno sviluppo orizzontale, in un progetto che tende ad annullare gli elementi verticali che collegano i ponti.

Cosa caratterizza questo yacht?
Nel nostro modo di disegnare le barche c’è una divisione molto netta tra gli elementi che completano l’imbarcazione e che ne fanno parte, ossia lo scafo, le coperte, i ponti, e, dall’altra parte, l’arredo. È un aspetto molto insolito perché il design navale spesso confonde questi livelli, incorporando gli elementi di interni con gli elementi di arredo. Io credo invece che proprio questa distanza, questo distacco, faccia sì che il disegno degli spazi interni sia molto coerente con la nauticità, che ne rispetti le forme e le esigenze, e che allo stesso tempo permetta al design, allo stile, di legarsi realmente agli arredi, oggetti mobili non ancorati nel disegno della barca. 

Quali sono i principali parametri da tenere in considerazione quando ci si avvicina al progetto di una barca?
L’ambiente navale ha esigenze molto specifiche, forse persino più specifiche dell’automotive perché le condizioni sono più estreme e perché a volte gli errori possono anche essere irreparabili. La modalità di approccio è soprattutto legata ad una grande economia di gesti, di disegno: si cerca di essere il più possibile vicini a quello che davvero serve, perché le linee guida sono legate all’utilizzo di una stazza, di un volume della barca che deve essere contenuto in certi parametri per entrare in una certa categoria. Nell’ambito dell’utilizzo di questi volumi è importante saper gestire l’integrazione di elementi tecnologici, come l’impiantistica e la sicurezza. La manutenibilità è fondamentale per un oggetto di questo tipo: la sostenibilità di un progetto navale consiste prima di tutto nella capacità di sopravvivere a se stesso, di poterne effettuare il refitting, di poterne aggiornare i sistemi. Questo richiede un’integrazione tra il disegno propriamente detto navale, che è quello dello scafo e della sua struttura, e le linee interne all’interno dell’imbarcazione. 

Patricia Viel, foto di Guido Boem

E anche la sensibilità culturale ha un ruolo?
Sì. La nostra è quella di rendere la vita in mare un’esperienza letteralmente molto vicina all’acqua: per questo cerchiamo di aprire il più possibile gli spazi tra di loro e verso il ponte esterno. Non cerchiamo di fare degli appartamenti di lusso che galleggiano: una nave è una nave e il suo contesto è il mare. L’apertura, la continuità tra interni ed esterni e le caratteristiche stilistiche degli interni che ti inducono ad essere vestito in modo semplice, a camminare a piedi nudi, a condurre una vita informale. 

Dai suoi discorsi si intuisce una grande familiarità con le barche. Le piace andare per mare?
Il mare mi piace moltissimo. Almeno due o tre volte all’anno, quando posso, parto per piccole crociere con amici. Per tutti quelli che sono abituati ad una densissima vita di relazioni, una vacanza per mare è straordinaria, perché ti consente di stabilire un rapporto contemplativo con il contesto, con il quale non devi per forza essere proattivo, ma che ti permette di farti assorbire da quello che accade intorno. Quando sei in mare, ma anche in montagna, avere un rapporto intenso con la natura ti ricolloca là dove dovresti sentirti un po’ più spesso, ai margini di qualcosa più grande di te. Dico sempre che mi piacerebbe invecchiare accanto a un grande albero, che ti ricorda cosa vuol dire durare.

E, invece, cosa insegna la progettazione della nautica a un architetto?
Credo che insegni ad avere un rapporto con lo spazio che non è sempre misurabile con la stessa unità di misura. Questo ci è stato molto utile nell’anno appena trascorso, quando ci siamo trovati a ragionare su come fare lievitare gli spazi minimi in tutte quelle case dove dovevamo al contempo lavorare, occuparci dei figli o dei cani, cucinare o fare le pulizie. Il rapporto con lo spazio va davvero raffinato proprio perché nella realtà è molto casuale, arrivandoci da una tradizione antica che viene da un altro secolo: oggi la complessità, l’interazione che abbiamo con mondi anche diversi richiede un’attenzione molto più sofisticata. Se ti approcci al design nautico capisci che quando disegni il bagno della cabina ospiti, quel centimetro lì non è lo stesso centimetro che hai usato per il salone del main deck: sono proprio misure diverse. Non serve uno spazio enorme, ma uno spazio ben progettato. 

Ci sono state molte visioni sulla rigenerazione post-pandemica e il ruolo dell’architettura, secondo lei c’è una visione fuorviante che è emersa dal dibattito?
La più fuorviante, una cosa che mi irrita profondamente, è il concetto di “distanziamento sociale”. È un concetto veramente stupido: è vero che il distanziamento fisico tra le persone è stato molto utile e che ci ha obbligato a costruire dei rapporti sociali di natura nuova, ma in via generale l’uomo non tollera il distanziamento sociale, vive di relazioni sociali, e cerca la vicinanza in qualunque modo. Detto questo, credo che abbiamo imparato che esistono dei rischi e che in un’Europa, diciamo così, illuminista, capace di costruire nei secoli una disciplina alimentare molto sofisticata e delle abitudini all’igiene personale che sono praticamente solo nostre in tutto il pianeta, siamo comunque a rischio. La prudenza nella gestione della vita di tutti i giorni deve tenere conto di incidenti potenziali che non sono prevedibili e che si combattono solo con la resilienza, ossia la capacità di reagire a quell’evento. E in questo caso non parlo solo di igiene o dell’aspetto “contactless” delle nostre interazioni, ma anche di dissesto idrogeologico, del rischio valanghe, dell’obsolescenza delle infrastrutture. 

Come ci si confronta con il rischio? 
Dobbiamo cominciare ad avere una percezione del rischio tale per cui bisogna mettersi sia la cintura e le bretelle: essere un po’ meno efficienti, un po’ meno aderenti a quello che pensiamo di poterci aspettare, ma crearci delle riserve. Creando quindi più spazio negli ospedali, più spazio negli uffici, più spazio nella logistica, rendendoci indipendenti rispetto all’utilizzo di un solo e unico mezzo, nell’essere più generici, nel fare macchine utensili più modulari… sono esempi a caso, ma per far capire che non è solo un problema solo sanitario, come non basta pensare di agire sui grandi centri di decisione: non basta costruire dei grandi ospedali, quando invece si ha bisogno di una rete di assistenza capillare. La capacità di costruire un’organizzazione duttile, che possa adattarsi a situazioni non prevedibili, deve entrare negli standard. E questo vuol dire: ti servono quattro autobus? Beh, allora dovresti averne cinque. 

E dunque come si riflette questa ridondanza nell’architettura?
È proprio questa la rigenerazione urbana! È soprattutto lì che dobbiamo lavorare perché le città sono state rigidamente costruite su sistemi semplici - la strada degli spadari, la strada dei calzolai – che si sono adattati nel tempo, quindi la città è di per sé da reinterpretare e non vedo nessun problema nel farlo. Certo quello che deve accadere è che gli appartamenti devono cambiare, il modo di guardare alla città deve cambiare, il piano terra deve cambiare, il confine tra pubblico e privato deve essere più labile, più integrato, più collaborativo. Parlavamo di ridondanza: la ridondanza in tutto quello che è pubblico e collettivo deve andare a compensare la scarsità di risorse sul privato. 

Tra i grandi progetti completati quest’anno dallo studio Antonio Citterio Patricia Viel c’è anche quello del San Babila Business Center.
L’intervento è stato effettuato su un progetto del 1953, sviluppato in piena ricostruzione post-bellica – quale migliore esempio di rigenerazione urbana – in origine una sequenza di edifici costruiti da BBPR, Gio Ponti, Eugenio Soncini e Antonio Fornaroli. La città bombardata che hanno ricostruito è una città ottocentesca, dove l’isolato aveva determinati rapporti di pieni e di vuoti, e già il loro progetto ne aveva completamente scalato le misure, attraversandolo da una parte all’altra. Quello che noi abbiamo fatto è stato riattivare la vocazione pedonale del piano terra - perché stiamo parlando di una zona pedonale per eccellenza come Corso Vittorio Emanuele, ma anche delle Gallerie e di Corso Europa, che pedonale lo sarà a breve – oltre a creare degli spazi esterni come terrazzi, spazi di convivialità, luoghi di autorappresentazione dell’organizzazione, che hanno funzionato molto bene. La facciata di Soncini l’abbiamo molto ridisegnata perché aveva pagato lo scotto di un’edilizia povera e poco performante, per il resto abbiamo effettuato un lavoro di recupero di volumi, esaltando questa bellissima caratteristica per cui affacciandoti da Corso Europa, cammini attraverso un edificio, attraversi un cortile, e ti trovi su Corso Vittorio Emanuele: una possibilità per percepire la città in un modo davvero speciale.  

Patricia Viel e Antonio Citterio, foto di Settimo Benedusi

La collaborazione con Antonio Citterio è pluridecennale. Come funziona?
Litighiamo costantemente: ho la grandissima fortuna di avere davanti a me un uomo di buon carattere che in realtà si diverte a sfidarmi su certe convinzioni non tanto per convincermi del contrario, ma per verificare che io ci creda veramente. Poi Antonio ha un talento naturale straordinario, delle intuizioni molto precise, e proprio perché è intuitivo è meno costante nel gestire un lavoro. Io invece sono molto determinata e sul progetto non mollo mai, quindi il nostro è un modo di lavorare diverso ma anche complementare. Poi è la durata che fa tanto, è una grandissima garanzia di reciproca saggezza. Ormai non ci può più succedere niente. 

Il vostro studio di architettura è il più grande d’Italia. La chiave di questo successo è più un’attitudine, un linguaggio, o l’esito di un processo organizzativo?
Negli anni ‘90 e nei primi 2000 abbiamo sostanzialmente lavorato solo all’estero e questo ci ha aiutato moltissimo: il mondo del progetto fuori dall’Italia è estremamente competitivo e molto esigente. Questo ci ha obbligato a investire in digitalizzazione. E ci ha sicuramente collocato in una posizione vincente il fatto di essere italiani, ossia di intervenire sul progetto in modo interscalare e interdisciplinare, un approccio unico nel panorama internazionale. Da quei mercati abbiamo appreso cosa vuol dire la professione gestita e sviluppata come un business, con degli investimenti reali, e abbiamo anche capito che l’architetto non lavora mai da solo. E non mi riferisco soltanto all’impiantista o lo strutturista, ma al bravo giurista che può trovarti una modalità di intervenire sullo spazio pubblico quando sei costretto da limiti normativi, al consulente per l’arte, fino a quello che si occupa di certificazione e ti introduce verso sensibilità particolari e determinate qualità ambientali. E poi bisogna essere anche fiduciosi: noi non ci siamo mai arresi, e anche quando ci sono stati anni difficili abbiamo sempre investito nello studio, comprato software, cercato persone: devi avere un progetto.

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