Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 965, gennaio 2013

Per la seconda volta nel giro di poco tempo capita che, proprio quando sono a metà di un articolo che devo scrivere, una catastrofe naturale ferisca la terra. Lo tsunami di Fukushima ha travolto Astenibilità, un testo che ho scritto per domusweb nel 2011. Oggi, Sandy ha fatto piazza pulita di alcune delle mie riflessioni sul riuso adattivo. Partito con il proposito di scrivere di come consideriamo i siti saturi di materia 'residua' — in sostanza, pezzi che facevano precedentemente parte di un qualche insieme — alla ricerca di un'architettura "al passo con i tempi", ero passato a riflettere sul patrimonio dell'umanità, sul Metabolismo e su altri temi solenni. Poi Sandy mi ha brutalmente riportato a contesti più quotidiani, alla 'materia' con la quale abbiamo a che fare ogni giorno, ma alla quale non prestiamo l'attenzione che forse meriterebbe.

Quando recentemente Frankenstorm ha colpito New York, i nostri schermi si sono riempiti di nuovo d'immagini di detriti dell'umanità, spazzati via dal mare — montagne russe decrepite, passerelle di legno fradicio, pergole corrose, tavole di rivestimento cadenti, imposte in frantumi: tutta la spazzatura che il nostro mondo contemporaneo produce e apprezza. I danni al commercio e al patrimonio causati dall'uragano saranno probabilmente bilanciati dal denaro stanziato per ricostruire e sostenere le zone colpite. La perdita delle cose, già messa in conto prima dell'uragano, non comparirà nelle statistiche economiche, a differenza dei prodotti che la sostituiranno. Come osserverà senza dubbio qualcuno, la distruzione è ironicamente uno strumento di crescita, una forza creativa.

In un mondo in continua accelerazione, la distruzione creativa priva in maniera sempre più rapida del suo significato culturale un numero crescente di prodotti della vita intellettuale della società — vuoi per effetto dei cambiamenti ambientali, vuoi per la volatilità economica. Si può sostenere che non si tratta di una condizione nuova: per secoli, gli architetti che operano nelle grandi città hanno avuto a che fare con ambienti storici. Oggi, però, i resti dei precedenti occupanti non sono le preziose vestigia di civiltà del passato — parte di quel "regime di conservazione del 12%", come l'ha chiamato AMO in "Cronocaos". Il cumulo crescente di avanzi è, invece, soltanto semplice roba: muri, tubi, puntoni, architravi e cornicioni. I diversi siti, inoltre, non sono pieni soltanto di resti materiali, ma anche d'ingombranti realtà immateriali: magnifici panorami, simmetrie semiriuscite, stravaganti portali, piccoli aggiustamenti progettuali, condizioni del sito, aspirazioni frustrate. I detriti fisici costituiscono la versione non ufficiale del nostro retaggio, della nostra storia, della nostra identità: la sporcizia che riempie le nostre città è la nostra vera eredità. Come dobbiamo interpretare questo filtrato delle umane intenzioni?

Si può considerare il suo riuso da un punto di vista economico, ovvero come vettore di energia incorporata, per non fare gli spreconi. Questi approcci, che sono alla base degli eleganti concetti di 'raccolta' o 'estrazione' nei siti, sembrano oggi un'ovvietà, ma potrebbero esserci anche un po' di aiuto. Io, però, preferirei prescindere, in questo caso, dalla dimensione quantitativa e pensare a un paesaggio immaginario con qualità architettoniche, arricchito dalla sua mediazione con la 'roba' già presente in loco.

Consideriamo da questa prospettiva il concorso per il restauro e l'ampliamento di Z33, un istituto per l'arte contemporanea a Hasselt, in Belgio. Esso illustra come cinque studi contemporanei affrontano la 'materia' trovata sul posto. Situato nel centro altamente commercializzato di questa cittadina fiamminga medievale, il sito di Z33 è particolarmente pieno di questa 'roba', che comprende: i resti della cattedrale sventrata dai bombardamenti, e volutamente lasciata in rovina come testimonianza del passato; un 'antico' beghinaggio ricostruito; un edificio per esposizioni del 1958 (Vleugel '58), architettonicamente povero, ma tipologicamente significativo; e, infine, una scuola in mattoni degli anni Ottanta in stile rétro. Il concorso chiedeva di ripensare e ampliare Vleugel '58, per accogliere il progetto di rilancio di Z33. Le impostazioni delle diverse équipe di progettisti sono molto diverse. XDGA dà prova di ardita freddezza nei confronti dell'antico, collocando una sorta di torre-macchina al centro del cortile; Junya Ishigami + MAKS scatenano uno tsunami di mattoni, che crea un gioco sottile e raffinato tra contesto e innovazione; il gruppo formato da Francesca Torzo, Aldo Bakker, Piet Oudolf e ABT offre una formalizzazione morfologica e poetica; lo studio De Vylder Vinck Taillieu raccoglie, in maniera irriverente, materiali presenti nel sito, riusando la scuola pseudoantica; lo schema di SO – IL, Filter, utilizza lo stravagante rapporto tra muro e apertura dell'edificio esistente come un'occasione per il progetto, come fa anche con l'organizzazione un po' sgraziata, ma affascinante, delle stanze e la natura estremamente elementare dell'edificio esistente: quest'ultimo viene trasformato, ma la trasformazione è utilizzata per dare una collocazione e un inquadramento anche alla nuova struttura. Passato e presente sono legati da un rapporto di dipendenza reciproca, senza che nessuno dei due sia nostalgico.

È un segno dei tempi che il romantico abbia vinto il concorso. Ci troviamo in un'impasse. La nostra è un'epoca sentimentale e nostalgica. Gli ideali sono obsoleti, la forma e gli ordini classici non hanno più alcun significato, e noi siamo privi della lucidità dei decenni precedenti. Avendo la percezione che la storia lineare è finita, aneliamo all'autenticità' in una vita apparentemente apatica — un'autenticità che esisteva un tempo, ma che ora sembra essere svanita. Ripresentiamo le eroiche architetture concettuali degli anni Settanta, ci dilettiamo a osservare pornograficamente lo spettacolo delle rovine, riesumiamo gli stili architettonici prebellici o ricostruiamo, letteralmente, edifici antichi come il Berliner Stadtschloss o il Frankfurter Rathaus. Nonostante queste tendenze, appare esservi poco dibattito, o poca analisi critica, su come affrontare concettualmente tutta questa roba vecchia intorno a noi. L'interesse per gli stili del passato, il sentimentalismo e la nostalgia sono tutti prevalentemente figurativi. Quello che sembra essere scomparso da questa riflessione è l'architettura: lo spazio, la forma, le scienze delle costruzioni.

La nostra incapacità di trovare un atteggiamento coerente per affrontare il passato è collegata alla nostra incapacità d'immaginare un futuro? L'architettura, che un tempo era concepita come una forma di ricerca dell'ignoto, è divenuta oggi passiva accettazione di un apparente decoro. Mentre il Postmodern evocava simboli storicistici con l'intento di fare avanzare la professione, ora sembriamo inconsapevolmente intenti a pescare fuori dal bacino della storia, sia esso moderno o rétro. L'esistente non potrebbe essere il promotore o il catalizzatore del nuovo? Può dare avvio a nuove relazioni, intensificando la nostra esperienza soggettiva dello spazio? La tabula rasa è roba da codardi, ma per giocare su una scacchiera piena di pedine non esiste un sistema coerente di regole. Di fronte a questa situazione, la prima regola è mettere alla prova ciò che c'è, riattiviarlo, integrarlo nella corrente, ma consentendogli di produrre attrito, di fare resistenza. Nel momento in cui ci liberiamo dei valori sentimentali, valutiamo olisticamente ciò che c'è e facciamolo lottare per conquistarsi un posto nell'oggi: allora potremo ridare al vecchio un ruolo attivo nell'architettura contemporanea. Florian Idenburg (@florianidenburg)

Florian Idenburg è un architetto attivo nella professione e nell'università e risiede a New York. È cofondatore dello studio di architettura SO – IL e ricercatore a contratto presso la Harvard Graduate School of Design.