Nel film di Orson Welles L'infernale Quinlan, del 1958, il protagonista Mike Vargas, agente dell'antidroga messicana interpretato da Charlton Heston, mormora: "Tutte le città di frontiera mettono in mostra il peggio di un paese". Benché il film non sia ambientato in una città specifica il ritratto che dà di un ambiente corrotto, violento, fatto di potenti signori della droga e di disperazione urbana appare molto vicino all'attuale vissuto di Ciudad Juárez, in Messico.

Se l'attuale percezione che il mondo ha del Messico è quella di un paese in guerra con i grandi cartelli della droga (dal 2007 si sono verificate oltre 30.000 morti violente), Ciudad Juárez, che si trova di fronte a El Paso, in Texas, è il luogo emblematico di questa guerra. Con una popolazione di 1.300.000 abitanti, nel 2010 ha registrato 3.111 morti violente. Con un tasso di omicidi di 229 morti ogni 100.000 abitanti è ufficialmente la città più pericolosa del mondo.

Ciudad Juárez può essere considerata una Detroit contemporanea, la cui condizione di città in declino e il cui forte calo demografico sono il risultato della combinazione di una crisi economica, della disintegrazione sociale e della violenza legata alla droga: un luogo dove pare che né la politica, né l'urbanistica, né l'architettura possano far nulla per porre fine al declino. Come scrive Charles Bowden in Murder City "non è il crollo dell'ordine sociale, è il nuovo ordine".

Ma la violenza non si è instaurata indipendentemente dallo spazio: anzi, si è manifestata sotto specifiche forme urbanistiche. Nel gennaio 2010 un gruppo di fuoco assassinò 17 adolescenti in una zona di Ciudad Juárez chiamata Villas de Salvacar. Il sito, un quartiere a basso reddito di recente costruito e abbandonato, è emblematico del modo in cui il patrimonio abitativo materiale di Ciudad Juárez sia stato svalutato e lasciato in abbandono. Si stima che oggi il 25 per cento delle abitazioni di Ciudad Juárez sia vuoto, e che gli abitanti siano fuggiti nei loro luoghi di origine in altre parti del Messico oppure siano emigrati negli Stati Uniti. Queste case abbandonate sono per lo più parte di programmi controllati, programmati e progettati promossi dallo Stato e costruiti da immobiliaristi.

Invece in alcune zone non ufficialmente pianificate di Ciudad Juárez, aree per lo più di costruzione spontanea, il senso di appartenenza e il senso comunitario sono stati più reattivi, anche se non necessariamente meno caratterizzati dalla violenza. Il recente omicidio di 7 giovani in un campo sportivo pubblico, parte di un centro sociale costruito dall'amministrazione locale e da quella federale, è la prova che la violenza si è fatta geograficamente pervasiva. Oltre che a questa violenza tra bande questi stanziamenti sono anche più sensibili ai disastri ambientali: in particolare alle inondazioni improvvise, note per essere frequenti nella regione, che possono distruggere in un istante case e quartieri.

Su entrambi i fronti pianificazione e progetto falliscono. Non riescono a immaginare nuovi protocolli, a progettare nuovi ambienti e a realizzare nuove forme di spazio pubblico e privato in grado di rispondere meglio alle esigenze della città e della comunità. Mentre la strategia del governo federale contro la violenza che ha origine dalla droga include esplicitamente il recupero degli spazi pubblici – e in particolare il progetto di Ciudad Juárez comprende un importante programma relativo agli spazi – non è ancora chiaro in che modo tutto ciò possa portare a un cambiamento. Quel che davvero sorprende è constatare il senso di distacco e di separatezza che le discipline dell'architettura e dell'urbanistica sembrano nutrire di fronte a problemi come la violenza urbana e il calo demografico (entrambe caratteristiche di una città in declino). In questo contesto si sarebbe tentati di rimettere in discussione i limiti della capacità della professione di provocare un cambiamento, di produrre civiltà e di garantire sicurezza; ma questo senso di distacco oggi è divenuto sospetto. Sembra che si resti a guardare mentre intorno tutto va a fuoco, e che ci si limiti alla convenzionale saggezza progressista della critica alla "guerra alla droga" o a esprimere commenti più o meno intelligenti in materia.

E tuttavia se si osservano certe ragioni essenziali della decadenza di Ciudad Juárez esse appaiono strettamente collegate con la separazione tra sfera fisica e sfera sociale: sono quelle case e quei quartieri completati che vengono abbandonati; sono quegli spazi pubblici generici che non riescono a reinventare la comunità; è la geografia marginalizzante della zonizzazione, dei corridoi e della miseria a generare il declino della città.

Se lo spazio può essere strumento di conflitto, di politica e di militarizzazione, allo stesso titolo può anche essere agente di cambiamento sociale. Condizioni come quelle di Ciudad Juárez richiedono un tipo di architettura in grado di ricostruire una coesione sociale tramite la trasformazione dello spazio, delle infrastrutture e del paesaggio urbano come modo di recuperare l'urbanità dei rapporti, la sicurezza, la civiltà e il senso della comunità.

Occorre immaginare la possibilità di costruire un'urbanità che emerga dal conflitto, in cui la sfera fisica e quella progettuale siano intimamente collegate con quella sociale e con quella amministrativa, e in cui attraverso il progetto sia possibile innescare forme di autoaffermazione. È questo rapporto tra società civile e strategie dello spazio ciò che può ridurre la violenza.

Il senso dell'efficacia mediatrice dell'architettura dovrebbe nascere da strategie che prevedano il cambiamento dei processi di programmazione della pubblica amministrazione come degli immobiliaristi privati, contrastando le politiche prevalenti che riproducono lo status quo urbanistico, lo sviluppo di migliori forme di partecipazione comunitaria e lo sviluppo di spazi in grado di promuovere la costruzione di capitale umano. La legittimazione disciplinare dello spazio e dell'estetica dovrebbe essere integrata in un diverso modello di partecipazione sociale e di senso di responsabilità professionale.

L'attuale incapacità dell'architettura di (re)immaginare impegno e partecipazione si riflette in una specie di irrilevanza sociale, nel deficit politico della professione di cui parla Rem Koolhaas. Io sostengo invece l'esigenza di un "ottimismo critico", che metta in primo piano la possibilità di impegnarsi in questa situazione, accanto alle forze e ai poteri che realizzano la città, ma con un'autonomia sufficiente a mantenersi riflessivi e critici. Come ha recentemente sostenuto Saskia Sassen, le città stesse possono diventare tecnologie contro la guerra e contro la violenza. (Ri)costruire la sfera pubblica a Ciudad Juárez è diventato un imperativo disciplinare, ma l'architettura ha bisogno di riformulare il suo programma disciplinare; in modo che, a differenza della scena urbana dell'Infernale Quinlan di Welles, le città (di frontiera) non mostrino solo il peggio di un paese, ma anche il meglio.

José Castillo è cofondatore, insieme con Saidee Springall, dello studio di architettura e urbanistica arquitectura 911sc di Città del Messico. arquitectura 911sc sta attualmente lavorando al piano regolatore di un quartiere di Ciudad Juárez. Castillo fa parte dei comitati scientifici di Urban Age e di LSE Cities, e insegna attualmente all'Universidad Iberoamericana e all'università di Pennsylvania.