“Build me a city”, costruiscimi una città, dice Sinatra, personaggio chiave di Paradise, la nuova serie americana di sette puntate di Hulu, in Italia la vedi su Disney+. Il suo interlocutore è un Bjarke Ingels di fantasia, un geniaccio dell urbanistica e dell architettura. Il mondo di Paradise è già una tecnocrazia senza se e ma, una proiezione lucida del mondo in cui viviamo e dove i secondi che ci separano dalla catastrofe sono 19, secondo il Doomsday Clock. Sinatra ha un potere insensato e ha costruito il suo successo personale fondando una azienda di storage sul cloud, lo pseudo Ingels ha il ciuffo e gli occhiali di un giovane Bill Gates. La città che gli viene commissionata è sepolta dentro una montagna e ospiterà 25mila persone, un drappello di super ricchi e una selezione degli americani da salvare quando e non se arriverà la fine del mondo.
Una battle-royale nel bunker
Lost (2004-2010, Abc) è lo show che vent’anni fa ha ridefinito cosa ci aspettiamo da una serie televisiva. Ha anche aperto la porta a un genere, poi gettonatissimo, che prevede di mettere insieme personaggi diversi in un contesto isolato, come un palcoscenico dove possano confrontarsi al meglio. Ma se ieri ci perdevamo in un’isola, nel nuovo mondo della guerra perenne l’isolamento è un bunker. Nella cittadina utopica di Paradise confluiscono tutte le contraddizioni e i drammi delle biografie dei protagonisti di prima che ci abitassero, tra famiglie spezzate, grandi menzogne da nascondere e il tormento di chi si trova, spesso contro voglia, a dover coprire un ruolo sociale che non desiderava.
Questo permette al creatore dello show Dan Fogelman (This is us, Cars) e al suo team di costruire delle figure di personaggi tra i migliori visti recentemente in tv, dal rigidissimo ma ostinato protagonista Xavier Collins (Sterling K. Brown) alla già citata Sinatra (Julianne Nicholson) al presidente infelice Cal Bradford (James Marsden). E molto all’americana, finirà tutto con una rivolta armata contro il potere costituito, colpevole di tramare contro i suoi cittadini. Del resto, gli Usa sono nati proprio così.
Ma c’è un’altra città-bunker della tv recente di cui si è parlato molto. È quella che dà il titolo a Silo (2 stagioni, Apple Tv+, basata sulla trilogia di Hugh Howey). È il prodotto della rilettura che lo scrittore inglese Ballard e poi il cyberpunk, da Akira ai libri di Gibson e Sterling a Matrix fino alla progettazione del mondo di Cyberpunk 2077, hanno fatto delle grandi unità abitative del ‘900, nate con premesse illuministe e propositi di razionalizzazione e finite per diventare alle volte un mezzo inferno in terra, vedi le Vele di Scampia.
La casa-alveare è diventata una distopia dell’abitare, claustrofobica fino all’osceno, gerarchizzata su livelli, sempre in bilico tra l’anarchia che ci si crea e il controllo che con cui l’autorità la soffoca. Il “silo” è appunto questo, un vespaio brutalista che si srotola verso le profondità del pianeta, un susseguirsi di gironi danteschi che si offrono come unica alternativa alla morte certa in un pianeta diventato inospitale - o che almeno si dice che lo sia. Ed è il contesto dove si sviluppa un bellissimo racconto di fantascienza, un thriller avvincente e molto psicologico che non colpisce però lo spettatore come la più recente serie Hulu.
Utopia e distopia si confondono
Il “paradiso”, a differenza del silo, racconta una storia che si infiltra sotto la nostra coscienza, una Cassandra in sette agili episodi da meno di un’ora ciascuno. E fa male, come una scheggia affilata che entra sottopelle e non vuole uscirne. Sotto molti aspetti, la cittadina di Paradise è la realizzazione dell’utopia americana, un ritorno agli anni felici dell’ Atomic Age – pensa che paradosso! –, una Topolinia di diner alla vecchia maniera, steccati dipinti di fresco e casette monofamiliari che ospitano famiglie spezzate dall’Apocalisse.
La casa-alveare è diventata una distopia dell’abitare, claustrofobica fino all’osceno, gerarchizzata su livelli, sempre in bilico tra l’anarchia che ci si crea e il controllo che con cui l’autorità la soffoca.
È la morte dell’architettura e il lavoro dello pseudo-Ingels è da bocciare in pieno – pietosamente, il personaggio viene fatto sparire dopo un paio di puntate. Pare quasi meraviglioso che nel momento in cui c’è da pensare a una città ideale fondandola da zero, l’americano si aspetti questa suburbia pettinata stile casa di Don Draper in Mad Men, dove si torna a soluzioni vecchie di un secolo e passa. Lo spazio della sperimentazione è nullo, le tendenze sono cancellate e l’unico respiro per lasciare emergere la tecnologia sono degli smartwatch che gli abitanti del Paradiso sono costretti a portare e il cielo artificiale. Il conforto della claustrofobia all’ennesima potenza, insomma.
La fine della simulazione
A spezzare la simulazione della vita perfetta degli abitanti della cittadina sarà proprio un hackeraggio del cielo con l’apparire di una scritta che in qualche modo echeggia la celebre “Io sono vivo e voi siete morti” del romanzo culto Ubik di Philip Dick. Una scritta che spezza il rapporto di fiducia tra l’autorità e il popolo: alla vita perfetta subentra la paranoia. Ma fino a quel momento, i circa 25mila fortunatissimi che sono scampati alle esplosioni multiple di testate nucleari negli Usa hanno vissuto in quello che per loro è un paradiso, uno scenario non molto diverso da come appariva Pacific Palisades prima che il fuoco lo inghiottisse.
Anche quell’incendio, a suo modo, è stata una piccola, grande fine del mondo: la sicurezza che va in fumo in pochi secondi, la normalità che si scassa irrimediabilmente in uno degli angoli più ricchi del pianeta, la California. Ed è proprio nel dialogo con il nostro presente e con l’attualità, che viene riflessa nelle narrazioni della serie in modo alle volte sorprendente e altre quasi inquietante, che Paradise emerge come una delle serie più interessanti degli ultimi anni, con il personaggio di Sinatra che si erge a madre di una intera comunità e non si fa problemi a costruire una complessa trama di menzogne pur di proteggerla.
