Creare con l’AI ci fa sentire in colpa. Perché?

L’intelligenza artificiale sta entrando nelle nostre vite, ma con lei arriva anche un fardello psicologico: il “senso di colpa da AI”, una sorta di sindrome dell’impostore aggiornata ai nostri giorni.

“A volte mi sento in colpa quando uso l’AI. Anche se non sto barando, anche se ho fatto lo sforzo di pensare, di correggere, di metterci del mio, anche se il risultato è oggettivamente migliore. Mi sento in colpa e basta”. Questo è uno dei tanti post apparsi su Reddit negli ultimi mesi, un pensiero condiviso da migliaia di utenti, spesso studenti, ma non solo. Il senso di colpa da intelligenza artificiale, o AI guilt, è diventato uno degli effetti collaterali più silenziosi – ma profondi – dell’adozione di strumenti generativi come ChatGpt, Midjourney, Sora o Runway. Si tratta di una sensazione diffusa: la percezione di “imbrogliare” quando si affida parte del proprio lavoro, studio o creatività a una macchina.

Il dato è confermato anche da una ricerca pubblicata su Forbes da Brigitte Paulise nel 2024, secondo la quale il 36% della Generazione Z prova un certo livello di colpa nell’utilizzare l’IA per attività professionali. Allo stesso modo, uno studio condotto da Cecilia K.Y. Chan e Wenjie Hu all’Università di Hong Kong ha individuato tre principali cause di questa sensazione: il timore di sembrare pigri o non autentici, la paura del giudizio altrui e la percezione di una perdita di identità creativa.

La cantautrice Giuliana Florio, in arte GROSE, che ha firmato una canzone realizzata con l’intelligenza artificiale

Il paradosso è evidente. L’IA ci offre strumenti straordinari per scrivere, sintetizzare, creare, progettare – eppure molti di noi si sentono obbligati a giustificare il suo utilizzo. Come se stessimo barando. Come se la macchina cancellasse la parte umana del nostro lavoro. Ma è davvero così? Una delle radici più profonde di questo senso di colpa è culturale. Fin da piccoli ci viene insegnato che “fare da soli” ha un valore intrinseco: il sudore della fronte, la fatica, la lentezza come prova di autenticità.

Il senso di colpa da intelligenza artificiale, o AI guilt, è diventato uno degli effetti collaterali più silenziosi – ma profondi – dell’adozione di strumenti generativi come ChatGPT, Midjourney, Sora o Runway.

Richard Sennett, nel saggio L’uomo artigiano del 2008, osserva come la cultura occidentale abbia storicamente costruito un’idea di valore fondata sul lavoro manuale e sul tempo investito, più che sul risultato finale. In questa cornice, utilizzare l’intelligenza artificiale – che accelera, semplifica, suggerisce – può farci sentire come se stessimo saltando un passaggio necessario. Anche quando il risultato è eccellente, resta quella voce interiore che sussurra: “non è tutto merito tuo”.

Il meccanismo psicologico è molto vicino a quello che Pauline Clance e Suzanne Imes descrissero nel 1978 con il concetto di impostor syndrome: la convinzione che i propri successi non siano pienamente legittimi se frutto anche di un aiuto esterno. È una logica che regge sempre meno: nessuno oggi si sente in colpa per aver scritto un saggio con il supporto di un correttore ortografico o per aver montato un video con un software di editing digitale. Eppure, con l’IA, le remore esplodono.

La modalità studio di Chatgpt, lanciata a luglio, mima un'esperienza di apprendimento con un vero tutor. Video: OpenAI

Nelle professioni creative, questo senso di colpa sembra colpire con particolare forza. Anche quando un artista utilizza apertamente l’IA, dichiarandolo e senza provare disagio, il rischio è che l’opinione pubblica – e la comunità online – reagisca con ostilità, proclamando “questa non è arte”. È il caso della cantautrice Giuliana Florio, in arte GROSE, che ha firmato una canzone realizzata con l’intelligenza artificiale, diventata subito virale e in seguito travolta da una shitstorm mediatica. Episodi analoghi si sono verificati con progetti come The Velvet Sundown, una band inesistente che produce musica interamente generata dall’IA e che ha superato il milione di ascolti su Spotify. Il problema, forse, non è tanto il mezzo utilizzato, quanto il fatto che queste produzioni siano in grado di competere – e vincere – con quelle create in modo analogico.

Le immagini della modella creata con l'AI che è apparsa su Vogue, dal profilo Instagram di Seraphinne Vallora: un’agenzia che crea contenuti per campagne pubblicitarie.

A questo punto è naturale chiedersi: se creare – che si tratti di musica, narrativa o arti visive – diventa più facile, cosa accade all’industria e a chi continua a inseguire il successo senza “scorciatoie”? È un timore legittimo: l’abbassamento delle barriere tecniche e dei costi di produzione rischia di generare una sovrapproduzione di contenuti, rendendo più difficile emergere. Ma la storia dimostra che non è la prima volta che succede: l’invenzione della stampa, il registratore multitraccia, il software di editing digitale hanno già prodotto effetti simili. Già nel 1936, Walter Benjamin, nel suo celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, spiegava come ogni innovazione tecnologica destabilizzi i criteri tradizionali di autenticità, senza però cancellare il valore estetico. In ogni epoca, la selezione dell’attenzione ha premiato non chi produce di più, ma chi riesce a toccare corde emotive autentiche, a creare connessioni durature.

The Velvet Sundown, la band fittizia nata nel 2025 la cui musica, un mix di folk, country e pop, è stata generata tramite intelligenza artificiale

Forse il problema sta nel nostro sguardo. Continuiamo a considerare la creatività come un’esclusiva umana, perché associata alle emozioni – da sempre viste come patrimonio unico dell’uomo. Ma, così come filosofi come Rosi Braidotti propongono di ripensare il concetto di intelligenza in un’ottica post-umana, riconoscendo forme di complessità anche nelle macchine e nella natura, potremmo fare lo stesso con la creatività. Un approccio post-antropocentrico ci permetterebbe di vedere l’atto creativo come un continuum in cui si intrecciano esseri umani, sistemi artificiali e processi naturali.

Il senso di colpa legato all’IA nasce da una cultura che ci ha abituati a misurare il valore del lavoro in termini di fatica e la creatività in un’ottica antropocentrica. Ma non dovremmo chiedere scusa per voler lavorare meglio.

C’è però un rischio evidente: il filtro dell’iperproduttività capitalista. In un sistema che misura il valore della creatività in termini di output, velocità e capacità di generare profitto, l’IA può essere interpretata non come strumento di esplorazione, ma come mezzo per saturare il mercato con contenuti “ottimizzati” per catturare l’attenzione e monetizzare. Byung-Chul Han, in Psicopolitica, denuncia questa accelerazione produttiva come una delle cause dell’impoverimento qualitativo della cultura, dove la quantità sostituisce il senso e l’arte si riduce a merce informazionale. Ma l’arte, nella sua essenza, non obbedisce a metriche di efficienza: la sua forza non sta nella quantità, ma nella capacità di aprire spazi di senso, di farci sostare, di mettere in discussione.

Exit Valley, la prima serie Tv animata creata interamente tramite prompt con l'intelligenza artificiale

In conclusione, il senso di colpa legato all’IA nasce da una cultura che ci ha abituati a misurare il valore del lavoro in termini di fatica e la creatività in un’ottica antropocentrica. Ma non dovremmo chiedere scusa per voler lavorare meglio. Non dovremmo sentirci in colpa per aver chiesto a una macchina un supporto, se quel supporto ci ha permesso di creare qualcosa che ci rappresenta. Come scrive Donna Haraway nel Manifesto Cyborg, la sfida non è preservare una presunta purezza umana del fare, ma riconoscere la potenza ibrida di processi creativi che nascono dall’incontro tra umano, macchina e ambiente.