Davvero le newsletter sono il futuro dell’editoria?

Tutto comincia qualche anno fa, quando alcune firme illustri si mettono in proprio fondando newsletter a pagamento. Ora il fenomeno si è evoluto su piattaforme dedicate come Substack. Ed è un’opportunità per creators e creativi.

Nel luglio 2020, la celebre firma del New York Magazine Andrew Sullivan lasciava il giornale tra le polemiche. La sua visione del mondo (moderatamente) conservatrice non trovava più spazio in una redazione – a suo dire – allergica a chiunque non fosse prono alle posizioni “woke”. Poco male: una settimana dopo aver lasciato il suo posto, Sullivan lanciava The Weekly Dish, una newsletter ospitata sulla piattaforma Substack e inviata nella casella email di chiunque sia disposto a spendere cinque dollari al mese per leggere i suoi editoriali, approfondimenti e interviste, (principalmente) sul tema del politicamente corretto e della cancel culture.

The Weekly Dish, Substack. Frame from website Substack
The Weekly Dish, Andrew Sullivan, Substack. Foto frame Substack

“C’è qualcosa di meraviglioso nel poter scrivere solo per i propri lettori”, ha spiegato Sullivan al New York Times. “È la tua gente che ti legge quindi avverti più responsabilità nei loro confronti, ma è una relazione vera e propria. Mi ricorda i fantastici vecchi tempi della blogosfera”. Nello stesso periodo, anche una firma di punta di The Verge, Casey Newton, annunciava il suo addio alla rivista online specializzata in tecnologia per lanciare la newsletter The Platformer.

“È possibile seguire una rivista”, ha spiegato Newton sempre al NYT. “Ma è molto più probabile che tu sia legato a un singolo giornalista, o scrittore, o youtuber, o autore di podcast. Le persone sono sempre più spesso disposte a spendere per supportare i loro autori preferiti”. Andrew Sullivan e Casey  Newton – e i tantissimi altri che hanno seguito o preceduto i loro passi – avevano ragione: a neanche cinque anni dalla nascita, Substack conta 500mila utenti paganti, mentre i primi 10 autori per numero di iscritti guadagnano insieme oltre 20 milioni di dollari l’anno.

Noahpinion di Noah Smith, ex editorialista di Bloomberg Opinion, Substack. Foto frame Substack
Noahpinion di Noah Smith, ex editorialista di Bloomberg Opinion, Substack. Foto frame Substack

In una fase in cui il mondo dell’informazione è in crisi, come ha fatto un modello antiquato che funziona esclusivamente attraverso la preistorica email a diventare la forma di comunicazione più innovativa degli ultimi anni? I punti di forza sono stati analizzati da tempo: ricevere un’email è una forma di comunicazione intima, poco invasiva, che si può recuperare facilmente in qualunque momento e che permette – ad autori e lettori – di aggirare completamente le logiche e gli algoritmi dei social network. È qualcosa che riporta per molti versi al rito quotidiano della lettura del giornale.

A differenza del tradizionale quotidiano, però, queste newsletter sono quasi sempre verticali e si occupano quindi in profondità di un argomento ben preciso: cambiamento climatico, cybersicurezza, questioni di genere, criptovalute, retrogaming, musica rock anni ’70. A volte l’impressione è che più sono di nicchia, più è facile che trovino un pubblico fedele disposto a sostenerle economicamente.

Grant Morrison. Courtesy Wikimedia
Grant Morrison. Courtesy Wikimedia

Ma qual è il modello di business per gli autori di newsletter indipendenti (tralasciando in questa sede quelle prodotte dalle testate tradizionali)? Il caso più semplice è sempre quello di Substack, seguito anche da rivali come Ghost o Revue (recentemente acquistato da Twitter). Come detto, chi vuole leggere una singola newsletter deve pagare un abbonamento che parte da un minimo di cinque dollari al mese, di questi il 15% va alla piattaforma e il resto all’autore. Per certi tipi di newsletter (come quelle che offrono consigli d’investimento), si può spendere anche dieci volte tanto. Al di là del mondo Substack, le newsletter possono essere gratuite e venire impiegate come veicolo per altre forme di introiti (libri, conferenze, pubblicità, ecc.); in altri casi ancora può essere richiesto un contributo volontario ai lettori più affezionati (mantenendo però la newsletter aperta a tutti) e infine c’è chi adotta il modello a più livelli: tutti possono leggere la newsletter base, ma chi paga riceve contenuti premium, podcast, inviti o altro ancora.

Rave New World, Substack. Frame from website
Rave New World, Michelle Lhooq, Substack. Foto frame Substack

Fino a qui abbiamo fatto esempi giornalistici. Limitare a questo ambiente il mondo delle newsletter sarebbe però sbagliato. Salman Rushdie, il celebre autore dei Versetti Satanici, ha una newsletter (Sea of Stories) dove oltre alle sue riflessioni sulla narrativa è in corso di pubblicazione un romanzo a puntate. Ci sono poi newsletter seguitissime che offrono consigli ai neogenitori, quelle sulla meditazione, sull’architettura e l’urbanistica, che parlano solo di vecchi concerti di Bob Dylan, di film italiani dell’orrore o che trattano temi delicati come quello dei disturbi mentali. “Nella sua varietà, Substack è prodotta da un mix di giornalisti professionisti, blogger, romanzieri, semplici appassionati e professionisti di vario tipo”, scrive il New Yorker.

Sea Stories, Substack. Frame from website Substack
Sea Stories, Salman Rushdie, Substack. Foto frame Substack

Osservando le newsletter da questa angolazione si intuisce il potenziale anche al di fuori del mondo dell’informazione strettamente inteso. Qualunque professionista altamente competente su un tema può individuare un target di possibili lettori. Se non bastasse, Substack si sta recentemente rivolgendo anche a creativi la cui forma d’espressione raramente viene accostata a questo universo, assoldando per esempio dei pezzi da novanta del mondo del fumetto americano – come Grant Morrison di The Invisibles o Brian K. Vaughan di Saga – che pubblicheranno nuove opere direttamente via newsletter (in questo caso, è probabilmente indispensabile dotarsi di un tablet).

C’è qualcosa di meraviglioso nel poter scrivere solo per i propri lettori.

James Tynion, che tra le altre cose è stato anche autore di Batman, ha spiegato a The Polygon le ragioni che l’hanno spinto a spostarsi su Substack per lanciare la sua nuova serie, Blue Book: “Non penso che nel mondo del fumetto possa esserci una situazione migliore di quello offerta da Substack. Abbiamo totale controllo creativo, conserviamo tutti i diritti e possiamo pagare ai collaboratori lo stesso tipo di compensi che riceverebbero nelle più grandi case editrici”. La ragione di questa condizione utopistica è semplice: secondo quanto affermato dal cofondatore di Substack Hamish McKenzie, sono sufficienti un paio di migliaia di abbonati per avere introiti annuali attorno ai 100mila dollari. I calcoli sono presto fatti: 2mila abbonati a cinque euro l’uno equivalgono a 10mila euro lordi al mese. Sottraendo il 15% di Substack, si arriva a circa 100mila euro l’anno. Anche togliendo tasse e contributi, si tratta di un ottimo compenso che garantisce inoltre completa libertà.

Blue Book, Substack. Frame from Substack
Blue Book, James Tynion, Substack. Foto frame Substack

Vista così, sembra un paradiso: bastano pochi lettori affezionati per trasformare le newsletter in una professione. Attenzione, però. Oltre a essere un lavoro che richiede una costanza assoluta (almeno una volta alla settimana bisogna garantire un contenuto che valga il prezzo del biglietto), nella grande maggioranza dei casi è necessario essere già un nome abbastanza noto per conquistare il piccolo seguito pagante in grado di garantire uno stipendio vero e proprio.

È per questo che la maggior parte dei nomi che avete trovato in questo articolo erano noti ben prima di aprire una newsletter. Haley Nahman, per esempio, era una redattrice di punta del noto blog di moda femminile Man Repeller (che oggi ha chiuso i battenti). Per inseguire il suo progetto freelance ha sfruttato una base di 90mila follower su Instagram, che si sono rivelati fondamentali per il lancio della sua newsletter Maybe Baby.

James Tynion. Courtesy Wikimedia
James Tynion. Courtesy Wikimedia

È un po’ l’andamento classico: ci si costruisce un seguito social grazie alle proprie capacità e alla visibilità offerta dalla professione e poi si sfrutta questo seguito per il lancio della newsletter. Per conquistare 2mila persone disposte a pagare un abbonamento mensile, insomma, bisogna essere nella maggior parte dei casi un professionista con un seguito molto, molto più ampio (oppure possedere una pazienza infinita nella speranza che il passaparola, prima o poi, faccia il suo lavoro).

Nonostante il legame con il seguito social oggi sia realisticamente imprescindibile, ascoltando le voci di chi si è buttato in questo mondo si sente di continuo il riferimento nostalgico all’“epoca d’oro dei blog”. Le similitudini sono evidenti, ci sono però anche parecchie differenze: nel caso delle newsletter, ci troviamo di fronte a contenuti professionali (o almeno curati da professionisti), che quando va bene possono garantire introiti importanti e che sono quasi sempre ospitati da piattaforme che hanno trovato un modello di business vincente.

Substack. Frame from website Substack
Substack. Foto frame Substack

Se si lascia da parte il legame con il seguito su Instagram o Twitter, il ritorno delle newsletter è inoltre uno dei più chiari esempi di quella che, nel mondo dell’informazione, viene definita l’era post-social media, in cui il vecchio modello basato sui click e la viralità viene superato in favore di spazi che offrono logiche meno feroci e garantiscono forme di guadagno differenti. È ancora da capire come si strutturerà questa nuova fase, chi saranno i vincitori e chi gli sconfitti. Ed è anche possibile che si rivelerà un ambiente informativo eccessivamente elitario (i 500mila abbonati di Substack sono un numero microscopico rispetto all’audience dei quotidiani online). Una cosa però è certa: le newsletter, assieme probabilmente ai podcast, saranno tra i protagonisti di questa nuova era mediatica.

Immagine in apertura: Courtesy Damon Lam, Unsplash

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