Pratiche di inclusione, tra sfide e limiti

Quali sono le sfide e i limiti delle attuali pratiche d’inclusione? Come si interpreta l’intersezionalità nei processi urbani e aziendali? Ne abbiamo parlato con Marco Alverà, Sara Hejazi, Elena Ostanel e Igiaba Scego

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1054, febbraio 2021.

Marco Alverà: Per raggiungere l’obiettivo di una maggiore inclusione, credo che sia molto importante prendere consapevolezza dei cosiddetti unconscious bias. I “pregiudizi inconsci” giocano infatti un ruolo strutturale nelle relazioni e sono i più difficili da scardinare: per questo sono oggi al centro del dibattito. Nel corso della mia carriera ho notato come un ambiente fair porti a prestazioni migliori, avvicinando le persone al massimo del loro potenziale. Lo stesso vale per l’università, la famiglia, una squadra sportiva e via dicendo. In un ambiente fair ci si può lasciare andare a maggiore libertà, come si fa nel jazz quando si improvvisa: questo favorisce creatività, innovazione e benessere.

Elena Ostanel: Credo che quello che Marco ha appena detto possa essere traslato anche a livello urbano. La letteratura è ormai concorde nel sostenere che la diversità è un valore aggiunto nel momento in cui la città deve raggiungere quel grado di urbanità che le permette di avere capacità innovativa. Un concetto importante in letteratura è quello di “intersezionalità della differenza”, secondo cui ogni individuo è portatore di molteplici differenze nelle quali può essere rappresentato. Anche le politiche pubbliche dovrebbero essere sempre più in grado di vedere queste molteplici differenze oltre che considerare che il conflitto non sia banalmente da sedare, ma diventi motore produttivo di cambiamento. Fare l’urbanista oggi, infatti, significa lavorare soprattutto su spazi ibridi di progettazione e saper lavorare con saperi e soggetti molto diversi: i sociologi come i community organiser, gli attivisti, i membri della comunità, le istituzioni. Dal puro disegno urbanistico, che deve esserci, si deve essere abili nella creazione, gestione e accompagnamento dei processi.

Illustrazione Francesca Bazzurro

Sara Hejazi: Senz’altro l’intersezionalità aiuta a esprimere le plurime appartenenze che caratterizzano ciascuno di noi. Nel 2007, Steven Vertovec parlava di ‘superdiversità’ riferendosi al caso britannico, identificando quel periodo come il momento storico in cui, più che mai, cominciavano a convivere in un medesimo spazio urbano una moltitudine di sistemi culturali e identità diverse. Questo strumento teorico aiuta nel contesto dei luoghi multifede, come la House of One di Berlino (progetto di Kuehn Malvezzi, oggi in costruzione, ndr) che racchiude una sinagoga, una chiesa e una moschea. La novità del concetto di Vertovec non è tanto la provenienza geografica degli individui, ma il loro status: dal rifugiato alla classe media, fino al colletto bianco. Il problema della superdiversità, però, è che racconta lo spazio urbano come contenitore neutro, quando invece non tutte le identità hanno la stessa possibilità di accedervi.

Igiaba Scego: Non è un caso che il movimento Black Lives Matter si sia rivolto fin dall’inizio anche alle dinamiche suprematiste esplicitate nelle tracce urbane. Il 2020 è stato l’anno, oltre che del Covid-19, anche della morte di George Floyd e delle proteste contro il razzismo divampate in tutto il globo: una presa di parola contro la scarsa rappresentazione degli afrodiscendenti. In realtà, a seconda dell’occasione, possiamo trovare soluzioni attraverso una discussione collettiva che non portino sempre all’eliminazione del monumento in questione. È questo approccio che in molti abbiamo sostenuto per lo spazio urbano, in Europa e, in particolare, in Italia.

Illustrazione Francesca Bazzurro

E.O.: La pandemia ha poi rafforzato le disuguaglianze a livello urbano: in particolare, l’Europa è ora più vicina ai parametri nordamericani. Fino a qualche anno fa, in Italia, si parlava di rigenerazione urbana e innovazione sociale riferendosi a luoghi solitamente definiti da una popolazione con alta diversità, capitale sociale e, tendenzialmente, un’esperienza di mobilitazione preesistente. Questi tre criteri, però, difficilmente si trovano nelle periferie, proprio in quei luoghi che avrebbero più bisogno di intervento. Lo stesso vale nel confronto fra grandi città e piccoli comuni. L’urbanistica ha oggi il compito di saper intervenire in città sempre più diseguali. La pandemia ci ha dato però anche la consapevolezza che si possono trovare forme inedite di collaborazione fra diversi attori, un aspetto da valorizzare in futuro.

M.A.: Dal punto di vista delle aziende, invece, sarà la spinta dell’ESG (Environment, social and governance) a giocare un ruolo importante nel contrastare questa polarizzazione. Oggi alle aziende è richiesta una comunicazione più forte di questi parametri, anche da parte degli investitori. Il purpose delle aziende sarà sempre più orientato non solo verso gli obiettivi di profitto, ma anche verso il benessere della società e del pianeta. Anche per questo, siamo convinti che sia arrivato il momento di valorizzare nuovi soft skill all’interno dell’azienda, tra cui il rispetto e l’intelligenza emotiva: l’heart quotient o HQ, che significa usare anche il cuore quando si prendono decisioni. Il digitale è un’enorme leva perché toglie strati di gerarchia che non servono più. La fairness va poi portata all’esterno dell’azienda, verso le città e le comunità in cui opera: i dipendenti sono cittadini. Per questo, abbiamo creato la Fondazione Snam. Inoltre, nel 2019, con mio fratello e i nostri cugini, ho istituito la Fondazione Kenta, che porta avanti l’operato di mia nonna Angelica Alverà – detta Kenta, scrittrice, storica dell’arte e attivista – impegnandosi per la parità di genere e l’accesso delle donne alle materie STEM.

Illustrazione Francesca Bazzurro

S.H.: A livello urbano, invece, è noto che questa polarizzazione segua la linea delle appartenenze identitarie ed etniche. Facendo uno sforzo di immaginazione provocatorio, più ci si allontana dai centri ricchi e più la pelle si scurisce. È una geografia antropologica che segue ancora schemi coloniali, gerarchie dove i non bianchi sono ai margini. Nelle città europee e nordamericane poi esiste la demonizzazione dell’Islam iniziata con l’attentato alle Torri Gemelle. A Torino, per esempio, ci sono 18 moschee, ma i loro minareti e gli elementi più caratterizzanti sono stati camuffati, o semplicemente omessi.

I.S.: Il nostro Paese è anche stato attraversato dal Fascismo, che ha lasciato le sue impronte in tutte le nostre città. Il passato non va rimosso, va affrontato: per ricreare un’altra storia e per disintossicare un monumento dal suo passato, serve una rielaborazione collettiva, una presa di coscienza pedagogica. Ogni traccia necessita del nostro lavoro e della nostra dedizione: solo attraverso la consapevolezza potrà esserci una vera decolonizzazione.

Immagine di apertura: illustrazione Francesca Bazzurro

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