Ho visitato Notre Dame dopo l‘incendio

Senza metterci piede fisicamente: Rebuilding Notre Dame è un documentario VR che porta lo spettatore nella cattedrale prima e dopo la catastrofe dell'anno scorso. Mostrando potenziale e limiti del mezzo.

All’inizio c’è solo l’abbraccio spaesante di una sfera buia. È l’eco delle sirene a spezzare la monotonia, a colorarla di blu e rosso lampeggiante, a inondare il silenzio con il suono dei soccorsi. Sullo sfondo si accendono gli schermi, uno dopo l’altro. Canali diversi raccontano la stessa storia: la cattedrale di Notre Dame va a fuoco. Si apre così il documentario 3D Rebuilding Notre Dame, appositamente realizzato per il visore di realtà virtuale Oculus Quest da Targo, un’azienda specializzata in intrattenimento immersivo. Questo prologo vuole ricordare “il senso di impotenza che tutti abbiamo avuto davanti alle immagini della cattedrale in fiamme”, spiega la regista e cofondatrice Chloé Rochereuil. “All’improvviso, tutto il mondo era in apprensione per la cattedrale”.

Sedici minuti di esperienza in prima persona portano lo spettatore in giro per lo spazio tempo, ricostruiscono senza eccesso di dettaglio il terribile incendio dello scorso aprile, mostrano con immagini spesso in sovrapposizione la vita passata e il vuoto presente della cattedrale. “Abbiamo cominciato a filmare Notre Dame un anno fa e non avremmo mai pensato che quel girato sarebbe diventato un documento storico”, dice Rochereuil. L’aspetto più importante è sicuramente la documentazione degli spazi interni per come si mostrano ora, gli elementi di rinforzo posti a sostenere i pilastri, la nuvola di tubi che sovrasta la chiesa laddove è crollata la flèche, la guglia disegnata da Eugène Viollet-le-Duc. Il cratere sottostante che devasta la pavimentazione è la ferita aperta, l’abisso davanti al quale lo spettatore con caschetto VR si ritrova. Solo l’organo appare intatto, punteggiato ai lati di sporcizia, rifiuti, un bicchiere di carta del fast food.

In un cammino che passa dal colore delle immagini di repertorio a quelle desolate dell’attualità, accompagnano lo spettatore un manipolo di personaggi eccellenti. Il rettore arciprete di Notre Dame, Patrick Chauvet: per lui la fine della cattedrale come la conosciamo coincide con l’inizio di una indagine personale e spirituale sul senso divino della catastrofe e del suo perché. “Forse la risposta ce l’avrò quando sarò in paradiso”, si risponde da solo a un certo punto del documentario. Poi tocca alla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo. Nelle sue parole il compianto va di pari passo con la retorica, e forse deraglia quando sostiene che nessuno può capire Parigi senza avere visto Notre Dame. Ma in fondo questo è la sostanza vera con cui l’incidente si è sedimentato nel senso comune: Parigi senza Notre Dame è una Parigi diminuita. Sfilano poi nel visore Jean-Michel Leniaud, storico e presidente della Sociatà degli Amici di Notre-Dame, e il generale Jean-Louis Georgelin, incaricato della ricostruzione da Macron. “Vogliamo vederla risplendere di nuovo”, dice; è intervistato in cima a uno dei container bianchi installati nei giardinetti Giovanni XXII, sul retro della cattedrale: lo spettatore se lo trova davanti in questo contesto surreale che restituisce però in pieno il senso dell’emergenza. L’arciprete invece compare in uno studio al piano terra, dove qualche cavo è disordinato e dalla finestra si scorge un motorino posteggiato in un cortile soleggiato. Lo storico in una grande biblioteca parigina. La sindaca nel suo grande ufficio con affaccio sulla cattedrale, tra le opere d’arte. Il documentario è girato con tale maestria da risultare a tratti esagerata. Non c’è traccia dei tecnici, delle maestranze, del microfono. Gli intervistati appaiono in piena solitudine, al centro di ambienti virtuali che nella sospensione dell’incredulità sembrano perfettamente reali e totalmente surreali, abitati solo da loro e dallo spettatore, che può anche completamente ignorarli per dare una occhiata in giro senza che ovviamente quelli reagiscano. Più che la virtualizzazione del reale, sembra la sua desertificazione.

Questo documentario, che racconta un evento diventato centrale nel nostro immaginario, usa un mezzo a cui siamo ancora poco abituati, il VR, e rappresenta un’ottima messa alla prova del potenziale di quest’ultimo al di là di un paio applicazioni già consolidate, che restano in qualche modo di nicchia, il gaming e la pornografia. Un documentario di questo genere è una esperienza nuova, innovativa, una modalità poco frequentata. Ed è impossibile guardarlo — sarà questo il termine giusto? — senza farsi delle domande sul potenziale della realtà virtuale come mezzo di comunicazione di massa. Lo sottolinea anche il produttore Victor Agulhon: “Vorremmo che questo documentario mostrasse quanto possa essere importante la tecnologia VR per il turismo, la cultura e l’educazione”. Targo vorrebbe installare delle postazioni intorno alla cattedrale, perché possano vederlo il maggior numero di persone.

Rebuilding Notre Dame ha il grandissimo pregio e al tempo stesso il difetto di ricollocare lo spettatore in luoghi in cui è già stato e in altri in cui non sarà mai. È uno schiaffone emotivo che racconta il crollo, anche se solo parziale, di uno dei monumenti più celebri del pianeta alternando interviste con paesaggi che evocano memorie importanti e carrellate aeree mozzafiato. Mettere lo spettatore dentro e fuori da Notre Dame, prima e dopo l’incendio, lasciargli la possibilità di guardarsi intorno, non è un accredito di conoscenza, ma un addebitargli viaggi a ritroso in un paesaggio frammentario di ricordi propri e collettivi. Immergersi nel quarto d’ora e rotti di Rebuilding Notre Dame è una esperienza oggettiva che ne evoca con prepotenza altre, soggettive. Ognuno farà il suo viaggio.

Così è stato anche per me: guardare il documentario nella concentrazione costretta della realtà virtuale ha evocato svariati ricordi che ho della cattedrale, dalla prima volta che l’ho visitata, l’estate prima dell’11 Settembre, a pochi mesi fa. Questa estate mi ero fermato a guardare Notre Dame a pochi metri da dove il documentario colloca lo spettatore a un certo punto, vicino al ponte dell’arcivescovado; ero con la mia ragazza, è stata la nostra ultima vacanza insieme, ci siamo lasciati una decina di giorni dopo; lì ci eravamo fermati a fare una foto e per un attimo, dando le spalle alla cattedrale e alzando lo sguardo, ho avuto quasi l’impressione di vederci dietro le edicole dei librai della Rive Gauche, prima di accorgermi di indossare il visore. Il realismo, la sensazione di trovarmi esattamente lì, in un luogo preciso eppure fuori dal tempo eppure in quel tempo precisissimo, come un bungee-jumping mnemonico, è stata fortissima. Se dovessi tornare a Parigi, magari sceglierei un altro punto di vista, meno carico di ricordi. Il documentario, ovviamente, non ti dà possibilità di scelta. Nel mio caso, il ricordo personale ha prevalso sul contesto: il protagonista non era più la cattedrale, sono diventato io. È la forza della realtà virtuale, ma anche il suo più grande limite: l’immersività non crea quella distanza che serve per anteporre un ragionamento a una reazione di pancia. L’emozione è tutto, dentro questo mondo astratto e parallelo ma credibilissimo, ed è un misto di oggettività, soggettività e caso. E non si può dire che Rebuilding Notre Dame non sia una esperienza ad altissima intensità emotiva. Immagino che lo sia per tutti, è l’evocazione di un universale singolare.  

Un’altra parte della mia esperienza con Notre Dame invece è totalmente virtuale: ho fatto su e giù per i tetti ripetutamente giocando al capitolo di Assassin’s Creed ambientato a Parigi durante gli anni della Rivoluzione Francese, Unity (Ubisoft, 2014), nel quale c’è quello che probabilmente è il miglior modello digitale tridimensionale di Notre Dame di sempre. Per guardare la città dall’alto ero anche risalito fino in cima sulla guglia, volutamente anacronistica — gli sviluppatori avevano preferito inserire nel gioco quella di Viollet-le-Duc, anziché quella decrepita presente sul finire del Settecento. Su quei tetti mi sono arrampicato, ho saltato, ho fatto il mio parkour dall’alba al tramonto, prima di lasciarmi cadere nelle vie lì di sotto. Questo per dire che molte delle prospettive del documentario erano emozionanti, ma per nulla inedite. E mi hanno fatto un po’ rimpiangere il gioco, che mi immergeva senza costrizioni in un paesaggio di statue e guglie e dettagli.  

Quello che forse ci si aspetterebbe da questo documentario è forse un po’ più di interattività, la possibilità di approfondire, di fare esplodere infiniti pop-up mentre si girovaga per la cattedrale semideserta. Farebbe perdonare anche qualche dettaglio che si perde nella resa 3D, pavimenti su cui si allargano artefatti digitali come piccole fastidiose pozzanghere. Ma alla fine, non è certo il dettaglio tecnico quello che resta nello spettatore, ma un sentimento, fortissimo. Una infinita sensazione di desolazione e a rimorchio qualche informazione utile in più su presente e futuro di Notre Dame.

Rebuilding Notre Dame è accessibile su Oculus Quest passando dalla applicazione Oculus Tv.

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