Un’allucinata lezione di stile a casa di Antonio Tabucchi

Una casa disposta su due piani e con i libri che arrivavano al soffitto, quella del romanziere a Vecchiano: ma nella ricerca del luogo perfetto dove lavorare, ricorda Andrea Bajani, Tabucchi preferiva il tavolo della cucina, tra le briciole della cena. 

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1073, novembre 2022.

Se prendere un treno o un aereo per andare a impiantare una storia lontano da casa è sempre stato il mio istinto, per molto tempo ne ho avuto uno più praticabile: cercare, dentro la casa in cui abitavo, il posto perfetto. Quello e quello soltanto in cui, secondo le mie illusioni di allora, le parole si sarebbero fidate a uscire nel bianco senza timore di essere impallinate dal cinismo del mondo.

Spostare il tavolo sotto una finestra, attrezzare un angolo in sala, o persino in corridoio, ha fatto parte per molto tempo di quegli atti scaramantici, tipici della categoria, che sottendono un pensiero indicibile. Che l’anima, se così la vogliamo chiamare, si manifesti solo in condizioni specifiche. Che tra l’atto della scrittura e la pratica religiosa ci sia una parentela. Che insomma, la pagina che compare sia una sorta di preghiera esaudita.

Inutile dire che tutto questo spostarmi per casa e poi per il pianeta per cercare il luogo in cui fare chiesa dimostra soprattutto la correlazione tra scrivere e fallire. Scrivere, semplicemente, non sempre succede, anche se sul tuo tavolo il sole disegna una linea perfetta, o fuori dalla finestra ci sono le Tuileries. Resta un fatto, però, che mi sono sempre chiesto in quale stanza della loro casa scrivessero gli scrittori che mi hanno segnato. Non tanto per poi poterli imitare, ma appunto per fare una specie di mappatura di tutte le chiese. Per progettare un pellegrinaggio impossibile.

Pur avendo uno studio attrezzato, disposto a setting perfetto per le foto da scrittore di rango, Tabucchi scriveva in cucina.

Per questa ragione, entrare nella casa di Antonio Tabucchi e restare sulla soglia del suo studio in contemplazione è stato un atto di devozione e di invidia. La casa italiana di Tabucchi sta in uno svincolo della statale che taglia in due il comune di Vecchiano, a 20 minuti da Pisa. È un fabbricato a due piani, una vecchia casa contadina risistemata negli anni Settanta.

Vi si accede, in auto, con una manovra complessa che o funziona subito, o il resto sarà un aggiustamento del tiro continuo o una linea sulla fiancata. Un patio, se così lo si può definire, tra vegetazione frondosa e un’incannucciata che fa da garage, dà l’accesso al pianterreno. Lì, distribuiti in un’infilata di stanze, ci sono una sala, un soggiorno che sfonda e in fondo fa tutt’uno con la cucina, un ingresso e poi, per l’appunto, lo studio. Al piano di sopra, tre stanze da letto. Dovunque, librerie dal pavimento al soffitto. Come edera sui muri, i libri si erano presi le pareti di casa.

Era un paio di anni prima che Tabucchi, in un marzo spietato, se ne andasse a stare nel rovescio del mondo dei vivi. Lo studio se ne stava lì, abbacinato di luce. E mentre Tabucchi trafficava affaccendato per casa, io me ne stavo sulla soglia di quel mondo a guardare quello che mi pareva uno scorcio di sensatezza. Se c’era una stazione in cui l’anima poteva avere voglia di scendere, non poteva che essere quella stanza. 

Illustrazione Bernardo Rodriguez
Illustrazione Bernardo Rodriguez

La scrivania lunga, l’abat-jour, una piccola torre di libri, fogli di carta, penne e matite raccolte. Di fronte, centinaia di volumi di poesia, come affacciati in balcone a fare il tifo allo scrittore seduto. Sapevo che Tabucchi aveva scritto Sostiene Pereira in un’estate a Vecchiano, a inizio anni Novanta. Era legittimo, guardando quello studio, pensare che lì Pereira, saltato fuori dal quaderno, si fosse poi messo a dettare.

Di quel primo soggiorno ricordo poi un risveglio notturno, non nuovo per me, visto che i sogni non di rado buttano giù la porta del sonno e mi guardano attoniti dai piedi del letto. Di solito comincio a girare per casa per seminarli. Quando ho fatto perdere le tracce di me, ritorno a dormire. Ma quella notte una luce al piano di sotto mi fece prendere a piedi nudi la via delle scale. Quale che fosse la ragione di quel chiarore, alla peggio avrei bevuto un po’ d’acqua. Di rado i sogni ti inseguono fino alla luce del giorno, elettrica o naturale che sia.

Scesi le scale, passai accanto allo studio, che era una specie di lago notturno, e arrivai finalmente in soggiorno. Seduto al tavolo di cucina, Antonio Tabucchi scriveva a mano sopra un quaderno nero. Piedi nudi sul pavimento, scriveva tra le briciole di pane rimaste lì dalla cena, le tovagliette spostate quel tanto che serviva per non intralciare l’azione. Pur avendo uno studio attrezzato, disposto a setting perfetto per le foto da scrittore di rango, Tabucchi scriveva in cucina. Solo la vita che succede, sembrava dire quell’uomo che io guardavo di spalle, non visto da lui, aiuta la vita a entrare nei libri.

Sono disordinato in generale, sono una persona che si macchia la camicia mentre mangia, e la cui scrittura, allo stesso modo, non è proprio un portento di limpidezza.

Non c’è altro che la vita che conta, la letteratura è soltanto uno dei luoghi in cui si manifesta. Ma servono le briciole di pane perché la vita si fidi a venire, perché scodinzoli tra i nostri piedi nudi, mentre chiediamo alle parole di farci vivere di più.

Di quel soggiorno ricordo il suo sguardo, quando gli passai davanti in ingresso e dopo in uscita. Mi salutò come se la mia presenza fosse un fatto consueto, e al contempo come se mi vedesse dal finestrino, mentre proseguiva chissà dove. Tornai su, e poi mi rimisi nel letto con la percezione molto netta che non mi ero sbarazzato del tutto dei sogni. Piuttosto ero passato, senza soluzione di continuità, dai miei ai sogni di un altro: che quella a cui avevo assistito, quella notte, era stata un’intensa e allucinata lezione di stile.

“Non mi considero un maniaco dello stile”, aveva detto qualche anno prima al suo traduttore greco. “Sono disordinato in generale, sono una persona che si macchia la camicia mentre mangia, e la cui scrittura, allo stesso modo, non è proprio un portento di limpidezza”. Questo è stile. Il resto è professionismo.

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