Andrea Bajani: la casa sopra le nuvole dove scrivere

Una casa su due piani vicino all’aeroporto diventa per tre anni un riparo dove vedere il mondo dall’alto, l’unico posto dove era possibile sparire e vivere insieme.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1072, ottobre 2022.

Credo che scrivere e scappare di casa, in me, siano da sempre le conseguenze opposte di una medesima spinta, e riguardano una specie di istinto a sparire. O meglio, a provare a esistere scomparendo alla vista. A scrivere si cerca di stare il più fermi possibile, come farebbe una preda in un bosco per non essere intercettata. A scappare si corre più forte che si può, si cerca la curva, e poi si rifiata. In entrambi i casi, sfuggendo al mirino, si esiste di più, con una sorta di felicità disperata.

Per questo credo di essere destinato a cambiare casa, o a cercarne sempre una nuova. Ho cominciato a scrivere per davvero scappando dalla casa in cui vivevano i miei. Anche restare invisibile, chino sul foglio, non era più sufficiente. Perché non ero invisibile a loro, e perché io li vedevo comunque, il che non sottraeva nessuno al malessere di considerarsi parte di una stessa sconfitta. 

Ma soprattutto quel mondo diviso in due, la cucina e due stanze da letto di sotto – e poi sopra quella postazione, il mondo sopra le nuvole.

A 20 anni, trovarmi un paio di volte a settimana in una casa non mia, alle porte di Torino, con una famiglia altrui da spacciare per propria, fu la conseguenza di quello stesso istinto a voler esistere da capo. Avere una stanza lì, cominciare volta dopo volta a lasciare l’impronta del corpo sul materasso, era come scavare una trincea da cui poter tirare fuori la testa. Per tre anni, alla fine della settimana universitaria, invece di prendere il treno e tornare in provincia, dal centro di Torino ho preso un autobus per l’aeroporto. E quando poi gli aerei già si intravedevano nel parabrezza oltre l’autista, scendevo accanto a una pompa di benzina, a Caselle, e da lì mi incamminavo verso una casa. Suonare, lasciare la borsa nella mia stanza, salire al piano di sopra e sedermi accanto a Roberto – un mio compagno di corso – a guardare gli aerei atterrare era quello che si fa in quegli anni in cui vorresti essere tutto, e hai paura di restare niente per sempre. 

Da sotto si sentiva il fuoco di copertura della vita domestica, quel sentirsi protetti da una famiglia per il solo fatto di non essere la tua, e fare casa di una casa qualsiasi. Di quella casa, a distanza di quasi 25 anni, ricordo gli interni più che l’esterno. Ciò significa che, di fatto, ricordo soprattutto quel cielo e quelle traiettorie ad andare e tornare di aerei che non avevo mai preso. Ma soprattutto quel mondo diviso in due, la cucina e due stanze da letto di sotto – con dentro una madre silenziosa e intensissima e un padre loquace, di terra e di voli pindarici insieme –, e poi sopra quella postazione, il mondo sopra le nuvole.

llustrazione Yinhan Liu
llustrazione Yinhan Liu

Era la casa sull’albero, quel mondo allestito sopra le nuvole. Lì solo era possibile sparire e vivere insieme, parlare fitti fino alla soglia dell’alba, mostrarsi ferite e poesie e dirsi quanto vivere fa paura. Il fatto che fosse una casa su due piani e che io non ricordi le scale non mi pare per caso. Come salivamo di sopra? Il sotto era sedersi a tavola a cena, riscaldarsi al tepore di una famiglia in prestito, dove far finta di essere un figlio era il canovaccio che andava in scena ogni cena. E poi quel sopra del tutto irrelato in cui ci si trova: un abbaino da cui vedere il mondo dall’alto – l’ombra dei lampioni sopra la strada, le solitudini beate dei padroni con cani – senza essere visto. E soprattutto essere in due, pensare che l’amicizia ti salverà, che non c’è amore che tenga al confronto. Che se anche il paracadute non si aprirà, ci schianteremo abbracciati, nessuno lascerà mai la presa. 

Mentre i vetri tremavano ogni volta che un aereo appariva e poi spariva nel cielo. Di quell’edificio ricordo che era al limitare dal paese, che in qualche modo era l’unico posto dove poteva stare davvero. Il resto erano i campi in cui Roberto e io camminavamo fino a sfinirci, girando in tondo, spingendoci fino alla soglia del buio, ma senza mai perdere davvero di vista le case. Parlando dei libri che avremmo scritto, di come non ci saremmo mai corrotti, di come non ci saremmo mai persi. E invidiandoci sempre appena quel tanto che serve a non smettere di sperare – di farcela davvero, di diventare come il tuo amico, di essere felice – senza farsi illusioni di imparare a vivere, ma magari a scrivere sì, di vivere dentro frasi perfette.

Forse quella è stata persino la casa più importante in cui sono stato, l’unica dove scrivere e non saper vivere non erano in conflitto, ma davano diritto di cittadinanza.

Ricordo invece a memoria quel girare a vuoto mentre il buio, come scriveva Roberto, da sotto sale su e si prende le case. Era un periplo infinito, fingevamo di ruotare intorno a un centro che palesemente non c’era. E ci sentivamo liberi per la stessa ragione, e cioè l’intuizione, che solo a vent’anni puoi fronteggiare senza impazzire davvero, che in mezzo non c’è niente se non uno spazio vuoto. E poi tornavamo a casa, quando tutti erano già a dormire, e anche quello spazio di sotto poteva essere nostro. E ridevamo piano, come due ragazzini fuori tempo massimo che si erano dimenticati di essere bambini e ci provavano con dieci anni di ritardo.

Ho scritto molti libri da allora, e lui ne ha scritto uno, di versi, che però contiene tutti quegli anni fino a oggi. Ci siamo persi, e non poteva che essere così. Prima o poi bisognava atterrare, non saremmo potuti stare in volo per sempre. Ho scritto un libro dedicato alle case, alcuni anni fa, e non ci ho messo la casa di Roberto. Non l’ho fatto con intenzione, non c’era rimpianto, in quella sottrazione, e men che meno vendetta. L’ho dimenticata. Forse quella è stata persino la casa più importante in cui sono stato, l’unica dove scrivere e non saper vivere non erano in conflitto, ma davano diritto di cittadinanza. Dimenticarla, forse è stato l’unico modo per proteggerla, per continuare a salire al piano di sopra senza dover usare le scale.

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