Andrea Bajani: una tana nel sottosuolo di Amsterdam dove sparire e scrivere

In una piccola casa olandese, nel quartiere di Zuid, una scala connette due universi: il mondo ufficiale e il mondo nascosto.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1071, settembre 2022.

Ho sempre avuto la tendenza, da che ho memoria, a cercarmi un piccolo buco e poi rintanarmici dentro. Non è necessario che sia un buco davvero: basta che sia un posto al riparo degli altri, un angolo della casa in cui non ci sia nessuno. Nell’infanzia poteva essere sotto un letto, ma anche in balcone. È sufficiente che sia io, e soltanto io, l’abitante di quel luogo.

Non credo, a ben vedere, di cercare un nascondiglio. Non mi è mai interessato non farmi trovare, e men che meno pensare a qualcuno che mi cerca. Ma sparire quello sì, mi è sempre piaciuto. Sparire sapendo di essere pensato. Sparire dal mondo e sapere che qualcuno, pensandomi, tiene l’altro capo del filo. E che mi sarà sufficiente tirare il filo, per uscire dal labirinto.

Non saprei dire che cosa mi muova, in questa tensione. Se sia un desiderio di dissoluzione, oppure il contrario, cioè un senso vertiginoso di libertà. Ma è certo che la scrittura ha profondamente a che fare con tutto questo. Scrivere è sempre stato per me quel gesto incongruente e ostinato di scavare un buco dentro la carta, scendere dentro e buttare fuori parole. E sapere che ci sarà qualcuno, da qualche parte nel mondo, adesso, tra due mesi oppure tra dieci anni, che le leggerà, vi si chinerà sopra con una specie di cura. Quella cura, quel trovarsi insieme seppure distanti, mi risarcisce di tutta la solitudine che a sparire giocoforza si soffre. 

Quello che nessuno sospetta, girando per casa, è che sotto il pavimento ci sia un altro mondo.

Credo sia per questa ragione che ho amato così tanto una piccola casa olandese. Sta ad Amsterdam, nel quartiere Zuid, nella parte meridionale della città. L’ho frequentata per anni, con soggiorni ogni volta di pochi giorni, e mi piace pensare che continuerò a farlo ogni volta che tornerò. È una casa che sta tutta su un piano, accanto a un canale, a poche centinaia di metri da Beatrix Park, attraversato il quale c’è la stazione dei treni di Amsterdam Zuid. Davanti alla porta c’è una panchina, e oltre la porta un ingresso. A destra, al livello della strada, prima si trova un piccolo studio, poi una sala con un divano, una poltrona, e scaffali di libri. Il resto della casa è una cucina dove si sta solo in piedi, un terrazzino di pochi metri quadrati, e una stanza di transito, con al centro un tavolo che la fa diventare un soggiorno.

Fuori, al di là delle gelosie, le persone passano a piedi o in bicicletta. Si sentono le voci, i volumi che crescono mentre si avvicinano, diventano parole, e poi sfumano quando proseguono oltre e tornano a essere suoni. Quello che nessuno sospetta, girando per casa, è che sotto il pavimento ci sia un altro mondo. Una scala, a un angolo del soggiorno, conduce sottocoperta. Non è un altro piano, e nemmeno una cantina. È a tutti gli effetti un mondo nascosto, in cui viene l’istinto di chinare un poco la testa, anche se a rigore il soffitto è alto a sufficienza da consentire la posizione eretta. 

Illustrazione Bertine Bielderman
Illustrazione Bertine Bielderman

Ci sono due spazi, uno di seguito all’altro, due letti singoli, librerie basse, un sentore di umido, che fa di quel posto una tana. La tana è sotto il livello della strada, non ci sono finestre, è un bunker perfetto. Credo di aver passato in quel luogo alcuni tra i momenti più felici della mia vita. È uno dei pochi posti in cui ho scritto sdraiato sul letto, il computer sopra la pancia, e dentro il computer un piccolo saggio in cui cercavo di capire come mai Van Gogh fosse impazzito, nei suoi ultimi anni. E mi dicevo che forse era successo perché dopo aver passato ogni giorno, per anni, il ponte che univa l’arte e la vita, dipingendo e però anche vivendo, poi invece aveva deciso di trasferirsi tutto nei quadri. Aveva deciso – o così mi pareva di desumere dalle lettere che scriveva al fratello Theo – che dipingere era meglio che vivere, che solo lì trovava una specie di pace. E quella pace, che è una specie di pace impossibile – concludevo – era la follia. Tagliarsi un orecchio e subito dopo farsi un autoritratto: la soglia finale era passata.

La ragione per cui sono stato così bene in quella tana nei sotterranei di Amsterdam Zuid, però, è che al piano di sopra c’era Marina. Era la presenza di un’amica a rendere quel buco in cui mi infilavo un posto in cui potevo sparire ed essere contento di sottarmi alla vista del mondo. Mentre io me ne stavo sdraiato sul letto battendo sui tasti, Marina al piano di sopra viveva la sua vita nel mondo per così dire ufficiale. Usciva a fare la spesa, prendeva la bicicletta e andava a leggere al parco, ascoltava la musica seduta in poltrona.

La scala, che connetteva i due universi, era in fondo la parte più importante della casa.

All’ora di pranzo e all’ora di cena mettevo fuori la testa, uscivo dai sotterranei e ci mettevamo al tavolo a mangiare. Dopo, sparivo di nuovo. Scendevo nel sottomondo, mi distendevo, mi trasferivo di nuovo dentro le parole. La scala, che connetteva i due universi, era in fondo la parte più importante della casa. Sparivo per istinto, e dentro quello sparire per certi versi finalmente esistevo – nelle cose che scrivevo. Però, era fondamentale due volte al giorno salire quei pochi gradini, sedermi a tavola, parlare di poco e di tanto, anche stare in silenzio. E dopo rifare quei pochi gradini al contrario, tornare sottocoperta. Senza cedere alla tentazione di trasferirmi del tutto di sotto, di traslocare per sempre nella scrittura.

Ancora oggi, quando il mondo fa male, e mi viene l’istinto di aprire la botola di una storia e sparirci dentro, penso a quella casa di Amsterdam. Sentire – da dentro – il ricordo, i talloni di Marina che mi cammina sopra la testa o la sua voce che si affaccia nel buco e dice “Mangiamo?”, mi commuove come sentire una voce dopo avere creduto di essermi perso per sempre.

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