Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1067, aprile 2022.
A differenza della prosa, non c’è modo di farsi trovare in casa dalla poesia. La poesia è indisciplinata, infedele, e non è interessata ai domicili di chi poi la metterà nero su bianco sul foglio. Potrei anche dire che la poesia è irrispettosa, se non fosse che ogni volta che mi ha bussato alla porta sono stato felice di lasciarla passare. Per questo ho un rapporto di rassegnata accoglienza con le poesie, e mi sono sempre ben guardato dal tentare di cercare una casa dove mettermi a scriverle, come mi ostino invece a fare quando mi metto in testa di lavorare a un romanzo.
Quando è successo, in una residenza per scrittori in una villa barocca non lontana da Norimberga, sono stato alla finestra ad aspettare invano per 11 mesi. Ogni tanto prendevo il quaderno, forzavo per così dire la mano, e ci scrivevo sopra dei versi. Ma la poesia è anarchica e indisponente, non tollera ordini, e così più che scrivere era tutto uno spingere a forza parole sul foglio. Svogliate, si depositavano sulla carta e poi incrociavano le braccia e si sedevano in terra. Avrei pure potuto metterle in coda, deportarle su carta, ma sarebbero state parole allineate, non poesia.
La poesia – quella che visita me, quanto meno – non ama molto le case, e raramente mi ha trovato seduto a un tavolo pronto.
E insomma, a nulla valse, in Baviera, cambiare la disposizione della mia stanza con vista sul Regniz, il fiume che dall’Alta Franconia finisce nel Meno. Che la mia scrivania vedesse l’acqua passare, che voltassi le spalle al panorama, che camminassi a caccia di ispirazione lungo quel braccio del fiume tenendo in tasca la mia Moleskine, la sostanza era la stessa. Poco o niente di scritto, una Caporetto finita soltanto a residenza conclusa, con baci e abbracci agli altri prolifici scrittori coinvolti.
La poesia – quella che visita me, quanto meno – non ama molto le case, e raramente mi ha trovato seduto a un tavolo pronto. Ama più i mezzi di trasporto. Mi bussa spesso alle spalle sui treni, in aereo, o in metropolitana. E per esperienza so anche che se non la raccolgo quando pretende, poi finisce fuori dal finestrino e va tutta sprecata. Quindi apro il taccuino e ce la lascio finire dentro, come una farfalla dentro un retino. Poi se mai la porto a casa e lì la libero, lavorando di fino sul foglio.
L’unica volta che mi ha trovato in casa, e in maniera continuativa, è stato in una palazzina anni Cinquanta di Roma, a poche centinaia di metri dal Gianicolo, nell’autunno del 2019. Si trattava di una sorta di subaffitto di transito, o un prestito con rimborso amicale più pulizie, con le lenzuola e gli asciugamani piegati sul letto. Il tutto si riassumeva in due mesi tra i mobili altrui, ritratti degli avi alle pareti in salotto, grate alle finestre per scoraggiare l’ingresso dei ladri, e fuori il cielo di Roma.
All’ingresso, un corridoio in marmo maculato portava alla sala, con poltrone rosse di design e divani, per poi allargarsi in cucina. Da lì proseguiva in parquet verso la zona notte, con due bagni e una stanza con un letto matrimoniale. In un disimpegno accanto all’ingresso, le nostre valigie transatlantiche pronte a volare in America, dove saremmo atterrati alla fine dell’anno per cominciare una vita texana. Credo che la poesia sia venuta trovarmi in quel periodo perché era appena nato nostro figlio. Per questa stessa ragione era facile trovarci in casa, dove ce lo passavamo di braccio in braccio, impreparati, sfiniti e raggianti. Tronfi se alla fine ci si addormentava sul petto, supplicanti se piangeva e non c’era verso che smettesse di farlo.
La poesia – o almeno quella che si palesa con me – si infila nei varchi dei pensieri che orchestra la mente, e più sono strutturati i pensieri meno si azzarda a inserirsi, visto che troverebbe solo un muro di cinta. Un bambino di poche settimane, due genitori innamorati e inesperti, con un padre molto goffo e molto sentimentale, congiurano contro qualsiasi pensiero strutturato. Da cui, campo libero per la poesia.
In qualche modo credo che il ritmo che hanno preso le parole che la mano destra scriveva, sia quello che la sinistra teneva per assicurare a nostro figlio un sonno sereno.
Per quella casa, lungo una discesa che portava in via dei Quattro Venti e da lì poi a viale Trastevere, ho insieme un’infinita riconoscenza e una sorta di oblio. La riconoscenza non richiede spiegazioni, credo, mentre l’oblio deriva dalla natura metamorfica di un appartamento quando dentro c’è un neonato che ha poca esperienza di cosa sono le metrature e gli spazi e di cos’è soprattutto quella scombinata faccenda che gli insegneranno a chiamare vita per il resto dei giorni. Per entrambe queste ragioni l’assegnazione degli spazi diventa arbitraria.
Nei due mesi che trascorremmo tra quelle mura, la camera da letto non fu quasi mai quella col letto matrimoniale. Lo fu a volte, ma molto più spesso lo fu la cucina o la sala, dove nei più disarmati e dolci naufragi di cui ho fatto esperienza sin qui, uno dei due finiva spiaggiato col bambino, per dare un po’ di requie all’altro genitore. Fu lì, in quell’insonnia forzata, mentre la nuova vita buttava giù la porta della vecchia, che sono arrivati i versi di L’amore viene prima.
La prima poesia la portai con me in testa per più giorni, per paura di dimenticarla, e perché mi era letteralmente impossibile scriverla: o avevo entrambe le mani occupate, oppure sfinito perdevo conoscenza appoggiandoci sopra la testa, con o senza cuscino. Non so dire se quello che ne è nato è un canto per mio figlio, per quello sbalordito amore, o un’invocazione al sonno. Certo è che lo scrissi praticamente tutto soprattutto in cucina, tenendolo in braccio mentre dormiva, cullandolo con la sinistra mentre con la destra appuntavo le poesie sopra il mio taccuino. In qualche modo credo che il ritmo che hanno preso le parole che la mano destra scriveva, sia quello che la sinistra teneva per assicurare a nostro figlio un sonno sereno.