Paul Jaray, il car designer che il nazismo ha eliminato dalla storia

Era su tutti i giornali negli anni Trenta, ed era sua l’auto che per prima toccò i 300 chilometri all’ora. Una mostra a Venezia ricorda il grande progettista ebreo che abbiamo rimosso dalla nostra memoria.

Nel 1981 Wolfgang Scheppe, oggi filosofo e autore e curatore, all’epoca un ragazzo, visita per la prima volta New York. Viaggiare non era come oggi, senza internet e uno smartphone sempre in tasca. Così, quando il ragazzo arriva nella Grande Mela, ha nel bagaglio i riferimenti di una serie di familiari che vivono lì, in caso di bisogno. Ce n’è uno che lo incuriosisce, uno zio che abita nella prestigiosissima Central Park West. Lo va a trovare e nella sua casa trova una collezione eccentrica. Ci sono dipinti, ma anche di oggetti. Tra cui una serie di modellini di strane auto dalla forma affusolata. Sono state progettate da un tale Paul Jaray, spiega lo zio, aggiungendo di averlo conosciuto personalmente in Svizzera, e di essere rimasto in contatto con lui finché non era morto nel 1974. “Una delle menti più brillanti che io abbia mai conosciuto”, aggiunge lo zio. Davanti a una frase del genere, il giovane Wolfgang Scheppe si domanda come potesse non averne mai sentito parlare.

Nasce così quella che il filosofo tedesco quarant’anni più tardi definisce come una “ossessione” per il progettista austriaco, che l’ha portato a collezionare più di due tera di materiale su di cui e i suoi lavori, confluiti solo in parte nella mostra intitolata “Architecture of Speed – Paul Jaray and the Shape of Necessity”. Una mostra sul car design, in una città priva di auto: Venezia.

Il modellino di un'auto con la caratteristica linea a fuso. Foto di Jakob Schmitt

Negli anni ’30 dello scorso secolo, Paul Jaray era un personaggio di primo piano, mi racconta Scheppe, accompagnandomi tra le foto e i documenti che sono presenti in mostra. In una vetrina davanti all’ingresso ci sono modellini di auto, alcuni dalla collezione che il filosofo ha ereditato dallo zio di New York. E poi c’è una replica 1:1 della Auto-Union Type-B, la Rennlimousine nota anche come la “macchina di Lucca”, perché sfrecciando sulla Firenze Mare toccò i 320 chilometri all’ora. Era il 1935 e nessun veicolo era mai andato così veloce. In quegli anni, il nome di Jaray era eponimo di car design e il suo nome lo si trovava frequentemente nelle riviste e sui giornali, quando si parlava delle automobili del presente e del futuro. Era al suo apice. 

Di lì a breve, nessuno o quasi si sarebbe più ricordato di lui. Colpa prima di tutto di una certa tenacia iperrazionalista di Jaray, fermamente convinto che l’unica forma adatta all’auto fosse quella fusiforme, quella che in inglese si chiama “spindle”, mi spiega Scheppe. Una teoria che non poteva piacere granché ai marchi di automobilismo. C’è una foto, in mostra, in cui tre auto disegnate da Jaray per tre diversi brand dell’epoca – Apollo, Dixi e Audi – parcheggiate in sequenza, sono praticamente identiche. Del resto, se quella era la forma perfetta, perché avere auto diverse, sosteneva Jaray. Che tra l’altro propugnava un modello psicologicamente controintuitivo a quello che tutti diamo per scontato, con la parte frontale dell’automobile più sottile. “La psicologia della velocità è diversa dalla sua scienza”, commenta Scheppe.

Quindi, possiamo pensare che una certa testardaggine dell’uomo non ne facilitò la fortuna. Ma il motivo vero, spiega Scheppe, è che Jaray fu fatto dimenticare perché era ebreo. Un rivoluzionario car designer ebreo nella Germania nazista non poteva avere spazio. 

Hans Erni, inchiostro su pergamena, circa 1935, da una collezione privata

In una delle teche della mostra è custodita una pagina della NKZ, Il nuovo giornale per l’automobilista, che risale al ’39 ed etichetta le scoperte di Jaray come un caso esemplare di “scienza giudaica”. Il paragone, che oggi suona paradossale, è con le teorie di Einstein. Paul Jaray, spiega Scheppe, discendeva da una delle più antiche famiglie ebraiche di artisti e studiosi della Boemia e di Praga soprattutto, i Jeittele (o Geidels, o Geitler); spostandosi attraverso la Germania meridionale nell’Impero Austro-ungarico, avevano cambiato il nome a causa dei sentimenti anti-semiti già forti all’epoca. Nato sul finire dell’800, Paul Jaray aveva un fratello architetto; la madre era imparentata con Arnold Schoemberg. Tra i suoi migliori amici c’erano nomi dell’olimpo intellettuale dell’epoca come Karl Kraus e Adolf Loos. Tra le sue frequentazioni Wittgenstein e Brecht.

Paul Jaray da giovane scriveva versi, disegnava, componeva musica. Divenne un ingegnere, seguendo lo spirito dell’avanguardia dell’epoca, che promulgava un universalismo in cui arti e scienza dovevano allearsi in nome del progresso. In quel passato, lui era l’uomo nuovo. Dimostrò di essere un grande inventore, è incredibile come l’abbiamo dimenticato. Wolfgang Scheppe indica una foto appuntata al muro, che ritrae il volto di una donna; mi spiega che è stata una delle più clamorose scoperte nella sua ricerca, perché quell’immagine fu trasmessa da Paul Jaray a distanza. Nel 1923 aveva inventato il fax. 

La psicologia della velocità è diversa dalla sua scienza

Dopo una prima esperienza nella progettazione di aerei, quando era poco più che ventenne, nel 1914 Jaray passò a lavorare agli Zeppelin, le navi volanti dalle linee fusiforme che all’epoca rappresentavano una importantissima parte dell’aeronautica: lì ebbe la possibilità di applicare il modello fusiforme, che era stato verificato matematicamente da Georg Furhmann due anni prima. Risale invece esattamente a un secolo fa, il suo brevetto del 1921, che lo rende il primo e più importante pioniere dell’aerodinamica nel mondo della progettazione dell’auto. Nel 1927 si trasferisce in Svizzera. Il passaggio al car design, spiega Scheppe, va visto nell’ottica di quel che all’epoca rappresentava l’automobile per un intellettuale progressista come Scheppe, il volano di una utopia sociale novecentesca, un mezzo di emancipazione. Attraverso i mezzi tecnici della motorizzazione individuale, si sarebbero potute liberare le masse. “L’opposto di oggi, in cui la macchina come mezzo personale di proprietà è quasi reazionario”, aggiunge il filosofo. 

Foto di Jakob Schmitt

Il nazismo si appropriò di quell’utopia con la Volkswagen, l’auto del popolo, e Ferdinand Porsche era sicuramente una figura più spendibile per la propaganda. Eppure, mi fa notare Scheppe, per fotografare la c, Adolf Hitler inviò il suo fotografo personale. La contraddizione era rilevante: gran parte dei prodotti che Paul Jaray disegnò erano macchine da guerra, o comunque pensati per accrescere la volontà di potenza di un paese che in quanto antisemita gli era fondamentalmente ostile. Di questo, mi spiega Scheppe, non c’è traccia negli scritti di Paul Jaray, il quale “non sentì mai la necessità di scrivere del nazionalismo alla base dell’antisemitismo istituzionalizzato” della Germania hitleriana, neanche quando fu lui stesso a subirne gli esiti. Quasi lo accolse con una sorta di fatalismo. C’è anche da chiedersi se non ci fosse in lui anche un certo senso di colpa, per essere stato in qualche modo complice del Terzo Reich.

Paul Jaray morì nel 1974. Povero. “Era troppo presto per le sue innovazioni, e quando i brevetti hanno cominciato ad avere un senso, erano in scadenza”, spiega Bastiaan D. van der Velden, lo studioso olandese che ha supportato Scheppe nella ricerca per la mostra di Venezia. Aggiunge che Jaray ebbe la meglio con Chrysler in un processo dopo la guerra, ma era poca roba. L’uomo che negli anni Trenta “era su ogni giornale e rivista”, sottolinea van der Velden, praticamente scomparve nel dopoguerra. Com’è scomparsa la sua intuizione nell’industria dell’automotive, dove l’idea di un modello unico e aerodinamicamente perfetto fu spazzato via per ovvie necessità di mercato. L’auto come la conosciamo, il prodotto di consumo definitivo della seconda metà del Novecento, doveva essere capace di declinarsi in infiniti modi e forme, come utilitaria o status symbol. Doveva incarnare un desiderio commerciale, non essere il prodotto perfetto che nessuno avrebbe mai rimpiazzato.  

Al tempo stesso, la forma aerodinamicamente perfetta propugnata da Jaray fu usata proprio dove era inutile, in una infinita serie di prodotti d’uso comune, dai ferri da stiro alle lampade Art Deco. Una piccola vetrina a Venezia ne raccoglie alcuni. Ce n’è anche uno di Gio Ponti.

Prima che io me ne vada, Scheppe estrae da una cartellina un plico di fogli. Sono le immagini di alcune auto innovative e sperimentali proposte dalle università che lavorano al futuro dell’automotive, tra cui quella di Gent. La tendenza è chiarissima: hanno tutte la forma dello spindle di Paul Jaray. A un secolo di distanza, il suo sogno è più vivo che mai. 

Mostra:
Architecture of Speed, Paul Jaray and the shape of necessity
A cura di :
Wolfgang Scheppe
Dove:
Istituto Arsenale per le politiche della rappresentazione, Venezia
Quando :
Fino al 30 gennaio 2022

Tutte le immagini sono state gentilmente messe a disposizione dall'Archivio dell'Arsenale Institute for Politics of Representation

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