L’auto sovietica oltre lo stereotipo del brutto anatroccolo

Nel 1989 la fuga delle Trabant da Berlino Est presentò all’Occidente un’immagine troppo semplificata della produzione automobilistica del blocco sovietico. È tempo di rimettere in discussione alcuni luoghi comuni.

Ancora oggi il mondo occidentale ha una visione sostanzialmente monolitica della produzione automobilistica dell’ex-blocco comunista, che nei migliori dei casi è liquidata con affettuoso paternalismo. È un approccio non troppo diverso da quello che caratterizzò lo strano incontro berlinese di trent’anni fa, quando il paesaggio parallelo delle lamiere sovietiche si presentò all’ovest in tutto il suo standardizzato splendore.

Era il 1989, e i teleschermi dei paesi capitalisti furono invasi dalle immagini della processione gioiosa delle Trabant in fuga dalla D.D.R., ansiose di mescolarsi con le Volkswagen, le Opel e le Ford che le attendevano nella Repubblica Federale. Il confronto era impietoso, tra le 601 di concezione ormai antica (il lancio risaliva a 25 anni prima) e le aggiornatissime, seducenti, superaccessoriate Golf, Kadett ed Escort, soggette ai diktat dell’obsolescenza programmata di ascendenza americana.

Qui sopra: la Tatra 603 (1956, Cecoslovacchia). Immagine di apertura: la ZIL 114 (1964, Russia)
Qui sopra: la Tatra 603 (1956, Cecoslovacchia). Immagine di apertura: la ZIL 114 (1964, Russia)

Si trattava, però, di una visione parziale di quella che fu la complessa realtà automobilistica sovietica. La statalizzazione della produzione ridusse effettivamente la quantità dei modelli e la loro qualità generale, ma non impedì qualche episodio di varietà e di sperimentalità. Molti marchi furono creati ex-novo come strumenti di una motorizzazione pianificata e autoritaria, ma in altri casi i regimi si appoggiarono a tradizioni industriali di lunga data, come in Repubblica Ceca, dove Skoda e Tatra erano già attive alla fine dell’Ottocento. Infine, i mercati dell’ovest e dell’est funzionarono come compartimenti ben definiti, ma tutt’altro che stagni. Lo testimonia l’intensa attività di Autoexport, la struttura del governo di Mosca preposta all’esportazioni in Occidente, ma anche il coinvolgimento diretto della FIAT nella vicenda dell’impianto Lada-VAZ di Togliatti.

Questa carrellata di modelli cecoslovacchi e russi, ucraini e iugoslavi, tedeschi e rumeni, tutti prodotti tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Ottanta, è una lettura tra le righe dei luoghi comuni sull’automobile sovietica, un approfondimento dei contesti, delle ambizioni e delle ragioni alla base di una stagione ormai conclusa. Si tratta di un’epoca probabilmente irripetibile, appena precedente alla definitiva globalizzazione dei processi di concezione e di produzione dell’oggetto-automobile.

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