Quando, al culmine della pandemia del Coronavirus, ci siamo sentiti per telefono, Martine Bedin ringraziava il cielo di aver fatto in tempo a fuggire da Parigi e stabilirsi temporaneamente nella sua casa sui monti della Corsica settentrionale. La casa soddisfa tutte le esigenze artistiche che le permettono di continuare a lavorare – spiega – soprattutto il suo archivio professionale, i suoi taccuini e uno studio completamente attrezzato. “Con l’avanzare degli anni il mio lavoro ha iniziato a cambiare rispetto alla semplice osservazione dell’ambiente naturale nel corso del tempo. Sono ritornata a quello che soprattutto mi aveva fatto desiderare di andare a scuola: il disegno basato sulla natura”.
Il che potrebbe sembrare una sorpresa per chi conosca solo le prime opere di Bedin, segnate dal suo contributo al movimento radicale di Memphis nell’Italia dei primi anni Ottanta. Con Memphis Bedin ha progettato soprattutto lampade sperimentali e oggetti d’arredo, un viaggio iniziato molto precocemente, forse troppo precocemente. Aveva 23 anni quando Sottsass la prese sotto la sua ala dopo aver visto la sua Casa Decorata alla Triennale di Milano del 1979. Partecipare alla fondazione di Memphis le diede una formazione al progetto ideale, un’esperienza precocissima che la spinse a concepire un’impressionante varietà di oggetti insieme con alcuni dei più liberi e irriverenti esponenti del pensiero industriale.
È in questo contesto profondamente creativo che nacque la sua emblematica Super Lamp (progettata nel 1981): il prodotto che diede maggiori profitti al gruppo, il cui prototipo è oggi conservato nelle collezioni del Victoria and Albert Museum di Londra. Disegnata a forma di cane, con la mezzaluna illuminata del corpo su quattro rotelle, la si trascina in giro con una lunga corda. “Volevo poter trascinare la lampada dietro di me, e per questo ho progettato la Super Lamp. Sotto molti aspetti sono un’aggiustatutto, e in quel caso mi sono sentita come se mi aggeggiassi a far qualcosa.”
Dopo il suo successo con Memphis Bedin dedicò altro tempo e altri sforzi a oggetti industriali che comprendevano oggetti come piccole lampade e rubinetti per il bagno, con i quali ottenne significativi successi di critica e di vendite. “il disegno industriale mi interessava, ma presto gli voltai le spalle, semplicemente perché non volevo lasciarmi inserire negli schemi dell’industria.” L’idea che migliaia dei suoi rubinetti da bagno andassero a finire in case anonime era spaventosa e stonava con la sua personale vocazione artistica.
In anni più recenti ha iniziato a creare oggetti fuori dell’ordinario, “relativamente difficili da realizzare”, la cui produzione poteva controllare dalla primissima idea alla distribuzione. Rimangono pezzi di scala abbastanza ridotta, che sono soprattutto funzionali. La collezione Città (2007) comprende straordinari vasi di marmo ispirati alle rovine architettoniche di città eterne come Roma, Mandya e Aït Baha, le cui forme accuratamente costruite rispecchiano la preziosità delle pietre di un muro decostruito; la collezione Portun’Candela (2011) comprende candelabri unici, caratterizzati dall’elegante sovrapposizione di rettangoli d’argento di varia forma.
Nell’ideazione di questo pezzi è fondamentale il processo del disegno, che per Bedin si è fatto sempre più importante, catalizzando il suo personale gesto creativo. Fu Sottsass a dire che Bedin si assumeva il rischio di dare maggior significato al disegno. “Mi sono resa conto che l’atto del disegnare esprime e comunica le cose che ci toccano più profondamente”, spiega. “Mi interessa la mente, il modo in cui concettualizziamo il mondo (sia con l’architettura, sia con il design) prima che un oggetto venga alla luce. Perciò sono profondamente convinta che la concezione intellettuale vada mantenuta segreta, e che, una volta che la matita tocca la pagina, quella linea esprime un’idea che è già sbocciata nella mente.”
Si comprende pienamente l’importanza creativa dell’atto di disegnare quando si sfoglia il libro più recente di Bedin, L’objet n’est plus là (2014): un repertorio di schizzi scelti dagli anni Settanta a oggi. Disegni di oggetti per la casa innovativi, eccentrici, il cui uso e i cui materiali rendono vago il confine tra arte e funzione, riempiono le pagine di questo libro policromo. Bedin ha dato vita ad alcuni di questi disegni nel 2014, producendo in base a questi schizzi 12 oggetti inediti, esposti in una nostra itinerante alla Speerstra Gallery in Svizzera e al Musée des Arts Décoratifs di Bordeaux.
Uno di questi pezzi, la Table à tout faire (ovvero “Tavolo tuttofare”), progettata nel 1979 e prodotta nel 2014, offre un esempio dell’impostazione concettuale di Bedin riguardo alla produzione dei mobili: l’idea che un unico pezzo possa incorporare tutto l’arredamento di una casa. Il pezzo, costruito in legno Padouk e paglia, ha due schienali collegati a una piattaforma centrale che fa contemporaneamente da tavolo, da panchina e da seduta. “È divertentissimo che questi oggetti di quarant’anni fa, eredità della storia del design concettuale e postconcettuale, vengano prodotti oggi esattamente come volevo.”
Considerando idee, concezioni e soprattutto disegni, l’opera della designer porta da sempre il segno di una sperimentazione concettuale continua e inarrestabile e di un’apertura nei confronti dell’adozione di nuovi strumenti espressivi. Contemporaneamente architetto, designer, docente e, più di recente, pittrice, Bedin ha consapevolmente e prudentemente evitato ogni etichetta che potesse mettere in pericolo la libertà del suo processo creativo. “Sto ancora cercando. Come un esploratore disperso tra i monti, sono continuamente alla ricerca di un percorso tra nuovi linguaggi espressivi”.
Nella sua casa di famiglia in Corsica Bedin lavora a nuovi progetti che integrano nuove tecniche. Avendo di recente scoperto la pittura a olio grazie ai corsi dell’École du Louvre, ha iniziato a copiare le nature morte di Chardin e dei maestri del passato. È la base di una nuova collezione di vasi di legno scuro in cui sono integrate vere e proprie nature morte da lei realizzate, che riprendono l’idea di un fiore in un vaso. “È la prima volta che nel mio lavoro il disegno di un oggetto diventa un oggetto vero e proprio”, spiega, aggiungendo che la collezione rappresenta una speci di mise en abyme, un’opera nell’opera, e una riflessione sul suo stesso operare. “Va perfettamente d’accordo con l’isolamento perché, come avrebbe detto mia nonna, non ho altro che tempo.”