Chi è stato Massimo Osti, il fondatore di Stone Island e C.P. Company

Il mondo visionario di Osti rivive in una mostra che ne ripercorre la carriera, a 20 anni dalla scomparsa, tra ritagli punk, esperimenti sartoriali e automobili elettriche e... Lucio Dalla.

Nel 1979 Graziano Origa, artista e situazionista sardo, stipulava con Andy Warhol un accordo – ufficioso – per portare in Italia Interview Magazine. Nasceva così Punk Artist, rivista piena di serigrafie, moda e musica che riprendeva intuizioni newyorkesi e le amalgamava con un’attitudine tutta italiana.

Appena un anno prima, a Bologna, Massimo Osti – classe 1944 – aveva lanciato C.P. Company, il marchio che lo avrebbe consacrato, a poco più di 10 anni dal debutto nella moda. Un esordio lontanissimo da accademie, corsi di laurea e sartorie, maturato a partire da un diploma in grafica pubblicitaria alle scuole serali. Da qui la prima avventura: Chomp Chomp, t-shirt serigrafate e promozionali, all’americana, come in italia non se n’erano mai viste prima. Fanno il botto, a dire il vero lontano dalle due torri, nei club della Sardegna di Aga Khan, dell’architettura organica di Luigi Vitti e Jacques Couelle, e dei locali in cui ballare scalzi sui tavoli in pantaloni bianchi a zampa. 

Warholianamente, Osti si fa sedurre dalla cultura pop e di massa, dai fumetti e dalle fotocopiatrici. Così nasce, nel 1971, Chester Perry, marchio il cui nome cita quello della fabbrica in cui lavora l’omonimo protagonista del comic britannico Bristow di Frank Dickens, pubblicato in Italia su Linus. Osti, l’illusionista e il visionario, stampa in serigrafia trame e filati sui capi, donando a polo e t-shirt in cotone una tridimensionalità inedita.  C’è Warhol, ma c’è anche – e soprattutto – il punk di cui Bologna diventa culla in Italia sul finire dei ‘70, con gli Skiantos, la Traumfabrik, la Italian Records e quell’asse con Roma fatto di fumettisti come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari e Tanino Liberatore, ossatura di Frigidaire e amici dello stilista.

Osti serigrafa, ma soprattutto fotocopia. Fotocopia dettagli da capi militari e da lavoro – sono 35.000 quelli che collezionerà e studierà negli anni girando il mondo – per poi ritagliarli e applicarli su prototipi di giacche. Tasche da capospalla da trincea, occhialoni da pilota d’auto d’inizio secolo, cerniere: assembla nuovi paradigmi per l’abbigliamento che verrà, intuendo che le nuove trincee saranno le città, frenetiche, del domani. È straordinariamente punk in ciò, è “muscoli e forbici” come intitola il libro antologico su Stefano Tamburini, altro cardine dell’editoria controculturale italiana degli ‘80 e dell’universo Frigideriano.

"Ideas from Massimo Osti. From Bologna, beyond fashion" porta in mostra il processo creativo che ha plasmato l'universo sartoriale di  Massimo Osti, fondatore di C.P. Company e Stone Island. Foto su gentile concessione di C.P. Company, Massimo Osti Studio.
"Ideas from Massimo Osti. From Bologna, beyond fashion" porta in mostra il processo creativo che ha plasmato l'universo sartoriale di Massimo Osti, fondatore di C.P. Company e Stone Island. Foto su gentile concessione di C.P. Company, Massimo Osti Studio.

Questo processo è ben raccontato in Ideas from Massimo Osti. From Bologna, beyond fashion, mostra nata dalla collaborazione tra Massimo Osti Studio, C.P. Company e Massimo Osti Archive, che ha appena inaugurato presso Palazzo Pepoli a Bologna e visitabile fino al 28 settembre. 

Al centro del percorso curatoriale ci sono i tre cardini della poetica di Osti, “innovazione, ricerca e sperimentazione”, come scriveva dello stilista Franca Sozzani, leggendaria editor-in-chief di Vogue Italia. Ad accogliere i visitatori, c’è la ricostruzione dello studio di Osti, dove l’armonia nasceva dal caos. Qui, di nuovo, via di ritagli, appunti, capi d’archivio pronti ad essere reinventati e le immancabili fotocopie. Come quella di un macchinista della Royal Navy tratta da un libro di illustrazioni di uniformi belliche, che nel ‘78 diventa lo storico logo di C.P. Company, quando Fred Perry minaccia di impugnare una causa nei confronti del quasi omonimo Chester Perry.

A proposito di C.P. Company, in mostra c’è il primo modello della 1000 Miglia, altresì nota come ‘Goggle Jacket’, la giacca con gli occhialoni sul cappuccio ispirata dai piloti della storica corsa automobilistica. Un grande topos emiliano-romagnolo, omaggiato anche da Fellini in Amarcord e da Lucio Dalla nel suo album Automobili

Un altro suo disco, sempre degli esordi, si intitolava Terra di Gaibola, proprio dove Osti aveva il suo studio negli ‘80, preferendo i colli alla città, come i veri bolognesi sottolineava Franca Sozzani.

Dalla è uno degli artisti a cui più si lega lo stilista. Le sue idee viaggiano per il mondo, i suoi capispalla conquistano le gradinate inglesi e la Grande Mela, ma sempre con Bologna (e l’Italia) come cardine identitario. Il mondo, dopotutto, non esisterebbe senza la provincia. Prima di Eric Cantona e Noel Gallagher, è Luca Carboni a vestire Stone Island. Osti mette in copertina del magazine di C.P. Company Renzo Arbore e Lucio Dalla, per cui disegna copertine di album e costumi di scena, come i camiciotti per il tour di Banana Republic del 1979 al fianco di De Gregori – spartiacque dell’Italia tra Anni di Piombo e reflusso. 

Nell’universo di Osti la moda non è mai fine a sé stessa. Su un altro numero del magazine C.P. Company viene presentata la Boxel P488, la macchina da corsa elettrica progettata dall’architetto Paolo Pasquini con cui nel 1984 il Massimo Osti Studio prende parte all’Electric and Solar Vehicle Grand Prix di Roma. In un altro carteggio d’archivio si può invece vedere il progetto dello stilista per una nuova Vespa.

"Ideas from Massimo Osti. From Bologna, beyond fashion" porta in mostra il processo creativo che ha plasmato l'universo sartoriale di Massimo Osti, fondatore di C.P. Company e Stone Island. Foto su gentile concessione di C.P. Company, Massimo Osti Studio.

Da outsider della moda convenzionale, Osti trova i suoi tessuti anche tra tende da doccia e teli per camion. Le fotocopie ne ispirano la ricerca di capi dall’aspetto usurato, lontano dalla perfezione patinata e posticcia delle riviste di moda. Anche le campagne nascono in casa, grazie agli scatti della moglie Daniela Facchinato, fotoreporter più incline alle subculture che alla moda. 

Osti, il punk e l’illusionista, si diceva. Con la tintura in capo, lo stilista cambia le regole del gioco, intuendo che i capi possono essere tinti dopo la confezione, permettendosi di ottenere pezzi con sfumature uniche e, soprattutto, di abbattere notevolmente i costi di produzione dei singoli modelli.

Questa tecnica, insieme allo sviluppo della Tela Stella, diventa l’elemento fondativo di Stone Island, marchio che nasce nel 1982 ispirato nel nome e nella vocazione esplorativa degli scritti di Joseph Conrad.

È una tenda da campo tedesca degli anni ‘30 a ispirare un classico della poetica Stone Island, lo Zeltbahn Cape (1982), mantella che racchiude la filosofia secondo cui la forma segue sempre la funzione, e non viceversa. Un percorso che prosegue nelle molteplici avventure sartoriali che Osti intraprende dopo l’addio a C.P. Company del 1995: Massimo Osti Production, Massimo Osti e M.O. Double Use. 

Su tutte, spicca la linea ICD+ Collection (Industrial Clothing Division), sviluppata nel 2000 per Levi’s in collaborazione con Philips, coronamento della tensione futuristica delle idee di Osti, che all’alba del nuovo millennio sembra finalmente vedere il mondo in pari con le sue idee. Tra i modelli, spicca un impermeabile in poliestere traspirante con cuciture termosaldate, ripiegabile in una tasca sulla schiena attorno al gilet interno in nylon e equipaggiato di kit Philips con telefono cellulare, player MP3 e pannello di controllo, collegati ai tessuti attraverso cavi. Una visione che sembra materializzare in passerella il Ranxerox di Frigidaire, e lo stordimento estatico per il millennium bug. Ancora una volta, Osti è però troppo avanti. La collezione viene subito ritirata dal mercato per i costi elevati, senza mai prendere piede.

Nei vent’anni trascorsi dalla scomparsa, la moda sembra finalmente aver recuperato questo gap, anche grazie all’incessante attenzione che gli è stata dedicata in Regno Unito, tra cameratismo sottoculturale da stadio e mondo accademico – nel Menswear Archive della University of Westminster di Londra curato dal Prof. Andrew Groves si trova il più vasto archivio di capi di Osti fuori dai confini italiani.

Ideas from Massimo Osti ha il merito di illustrare il pensiero di Osti, oltre i soli capo-feticcio, riportando il designer nel cuore della sua Bologna.

Massimo Osti nel suo studio. Foto archivio Carlo Orsi.

Immagine di apertura: Massimo Osti, fotografia di Daniela Facchinato.