Design e architettura: le passioni dello stilista Arthur Arbesser

Da Luigi Caccia Dominioni alla Wiener Werkstätte, dalle ultime importanti collaborazioni con Fay e Backhausen alla pura gioia dell’insegnare.

La collezione di Arthur Arbesser, Vienna, 2018. Foto Paul Bauer

Partiamo dal tuo atelier. Siamo a Milano, in piazza Sant’Ambrogio, in un palazzo progettato da Luigi Caccia Dominioni, sede storica del suo studio. Vorrei chiederti se si tratta di una scelta consapevole, se sapevi di portare la tua base in un edificio-icona di una tradizione architettonica fortemente legata alla città.                Arrivato a Milano ho subito incrociato e amato il lavoro di Caccia Dominioni: dalle architetture per i supermercati Esselunga alle maniglie, dagli arredi alle facciate di alcuni suoi edifici. Il destino mi ha fatto incontrare molte famiglie milanesi che vivono in palazzi progettati da lui negli anni Sessanta e Settanta. Venendo da Vienna, dove quel tipo di casa borghese si trova nei palazzi d’inizio Novecento, si trattava di un’estetica affascinante e nuova per me. Ho poi conosciuto sua nipote, la fotografa Valentina Angeloni. Siamo diventati amici. È stata lei a segnalarmi uno studio libero in questo palazzo. A quel punto mi sono detto: è destino. Mi sono innamorato immediatamente dell’edificio e dell’idea di partecipare a una storia così milanese. Quando ti sposti, devi essere curioso della tua nuova città. Caccia Dominioni rientra in questo mondo milanese che ho conosciuto e abbracciato con grande interesse.

Quali altri riferimenti legati a Milano possiamo leggere nel tuo lavoro?                                                                                                                                Dodici anni fa, quando mi sono trasferito, l’atteggiamento dei milanesi verso la loro città era più negativo e meno orgoglioso di oggi. Non volevo adeguarmi a questa visione poco propositiva, così ho cercato di scoprire ciò che di stimolante la città poteva offrirmi, partendo proprio dal design e dall’architettura. Dal brutalismo degli anni Settanta ai dettagli incredibili di molti ingressi, gli stessi che poi Karl Kolbitz ha fotografato per Taschen. Sempre a Milano ho incontrato amici che mi hanno fatto scoprire in maniera precisa e rigorosa il lavoro di artisti e architetti fondamentali in ambito milanese come Lucio Del Pezzo, Bruno Munari, Piero Portaluppi e Gae Aulenti.

C’è molto del Sottsass di Memphis in alcune tue stampe…                    Sì, il lavoro di Ettore Sottsass è sempre stato molto presente, fin da quando ero studente a Londra. Era incredibile come tra i tanti libri della biblioteca del Central Saint Martins mi capitasse sempre tra le mani un volume dedicato ai suoi vetri. Il mio sguardo sul design come fonte d’ispirazione spazia molto: per una stampa o per la costruzione di un abito credo sia più interessante studiare la superficie di un mobile o la posa delle piastrelle di un bagno che non stare ore in un negozio di abiti vintage. Forse questa volontà di abbracciare in maniera totale la cultura che ci circonda non è molto on trend ora, ma le mie linee nascono per durare nel lungo periodo e non per esaurirsi nelle tendenze dell’immediato.

Arbesser X Vienna. Backstage
Arbesser X Vienna. Backstage

A settembre sei stato nominato direttore creativo del marchio Fay del gruppo Tod’s, come pensi di portare tutto il tuo mondo in questa realtà più corporate?                                                                                                    Ho deciso di lasciare la maggior parte del mio bagaglio qui, in piazza Sant’Ambrogio, e di portare in Fay la mia parte più razionale. Pensare di dividere il proprio universo artistico ed emotivo su due progetti così diversi è impossibile. Se nella mia linea ci sono i riferimenti estetici più vari e disparati, in Fay c’è tutto il mio buon senso. La prima presentazione è andata molto bene. Voglio creare un prodotto che sia desiderabile in maniera trasversale dal commercialista alla dottoressa impegnata in un congresso.

Nella tua ultima collezione ritroviamo la tua città d’origine, Vienna. Hai collaborato con l’ente del turismo in omaggio al centenario del Modernismo viennese riproponendo dei tessuti della Wiener Werkstätte, da sempre prodotti dalla manifattura Backhausen. Come ti sei mosso rispetto alla ricerca d’archivio e alla sua declinazione in un linguaggio contemporaneo?                                            A Vienna alcuni di questi motivi sono diffusi come tessuti d’arredo un po’ ovunque. Volevo evitare una lettura troppo storicizzante o “polverosa” dell’archivio di Backhausen. Sono partito da un elemento geometrico per me semplice e perfetto: una riga disegnata da Koloman Moser nel 1902. La riga contiene decori o circolari o triangolari – il triangolo è tratto da un disegno di Josef Hoffmann – e crea un pattern generale molto controllato e ritmato. Ho affiancato questi motivi a un “bestiario astratto” e fiori acquarellati. Conoscendoli soprattutto attraverso fotografie d’epoca in bianco e nero, spesso scordiamo quanto fossero colorati i tessuti della Werkstätte. Queste forme fluide, libere, isolate su fondi in contrasto, creano il giusto equilibrio con la parte più rigorosa nei toni del tabacco, del nero, del rosso e del grigio legata a Moser e Hoffmann.

Backstage shooting
Backstage shooting

Di Hoffmann hai ripreso anche i dettagli di alcuni bicchieri commemorativi della Prima guerra mondiale.                                                Si tratta di alcuni dei miei pezzi preferiti conservati al MAK, uno dei miei luoghi del cuore a Vienna. Ho un ottimo rapporto con il direttore Christoph Thun-Hohenstein, una persona che stimo moltissimo. Per chi ha mantenuto uno spirito positivo in questi tempi di grande incertezza politica ritengo fondamentale spingere e sostenere la cultura che ci circonda. In questa fiducia, rimango un sognatore.

Insegni nel corso di Design della moda allo IUAV. Cosa rappresenta per te quest’esperienza?                                                                                    Sono molto fortunato perché lo IUAV è un po’ un gioiello, grazie alla cultura e consapevolezza della moda come disciplina che Maria Luisa Frisa infonde alla scuola. I miei studenti sono entusiasti, ma anche molto ancorati alla realtà. Hanno una conoscenza precisa della materia, qualità rara negli studenti di fashion design. Alcuni di loro magari hanno il padre che lavora nella pelletteria o la madre in un maglificio. Confrontarmi con loro, aiutarli a costruire la collezione che poi costituirà il loro primo portfolio è per me è un’esperienza importantissima, di pura gioia.

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