Numerose sono state le incursioni a teatro da parte di artisti contemporanei: negli ultimi anni, per esempio, il Teatro San Carlo di Napoli ha affidato il progetto delle scenografie de Il Vascello Fantasma a Valerio Adami (2003), di Elektra ad Anselm Kiefer (2004), de La Valchiria a Giulio Paoli (2005).
Nel 2006 sarà di scena l’artista sudafricano William Kentridge con Il Flauto Magico. Più rare, invece, le divagazioni in questo campo per mano di architetti propriamente detti. I loro interventi creativi si devono unicamente ad affinità elettive con il tempo del teatro e della musica: come, per esempio, la relazione che ha unito Renzo Piano al compositore Luigi Nono, per il quale nel 1984 ha disegnato le scenografie dell’opera Prometeo.
Jean Nouvel e Zaha Hadid, invece, si sono accostati al mondo della danza moderna, curando alcune scenografie per il coreografo belga Frédéric Flamand.
Solcare la scena incute timore anche ai più disinvolti autori: sul palcoscenico si è completamente nudi, senza filtri. Agli scenografi si chiede, invece, di costruire uno spazio, cercando di immaginare come le persone si muoveranno al loro interno: l’effetto finale, che il pubblico vedrà dalla platea e che i ballerini sperimenteranno di persona, nasce da questa interazione. In questo senso, il lavoro che John Pawson ha appena completato per la Royal Opera House di Londra – le scenografie del balletto di danza moderna Chroma in scena nel novembre 2006 – conferma una non comune sensibilità nel trattare lo spazio: “L’architettura, nel suo complesso, si interessa soprattutto di come le persone usano e si muovono nello spazio, ma queste dinamiche sono elevate all’ennesima potenza soprattutto in un balletto. Parte della sfida sta nel modo in cui – certamente inconsueto per un architetto – questo tipo di lavoro separa come lo spazio sarà fisicamente vissuto da come sarà percepito dal pubblico”.
Pawson lavora per la prima volta all’interno di un teatro, un ambiente privo di luce naturale, che egli affronta attraverso una duplice strategia: la presenza del vuoto e il disegno della luce. Il vuoto di cui parla Pawson deriva da quella che definisce un’“immagine mentale”: è la presenza misteriosa che aleggia all’interno delle due grandi aperture ricavate all’interno dell’abside del monastero cistercense da lui progettato in Boemia. Qui il vuoto si rende presente, ma anche misterioso, attraverso il susseguirsi nel tempo di luci di diversa intensità, lo stesso processo che si ritrova anche nel disegno delle scenografie di Chroma. Pawson eleva una struttura fissa con un’apertura al centro del fondale di scena, ma oltre al movimento dei ballerini, è solo la luce che modifica lo stato delle cose: attraverso la sua modulazione, lo schermo in secondo piano appare così venire in avanti o indietreggiare. Ma è anche una strategia per riquadrare il vuoto con una sorta di cornice, le cui dimensioni si relazionano a quelle dei ballerini.
http://www.johnpawson.com










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