“Quando penso agli ultimi venticinque anni del mio lavoro, mi sembra proprio di aver fatto tutto quello che volevo per tutto questo tempo, e non mi pare che ciò abbia molto a che fare con il graphic design”, dice Peter Saville, che a 47 anni è uno dei graphic designer e degli art director più noti e anche – forse con una punta di perversione – uno dei più alla moda di tutta la Gran Bretagna.
Nel suo portfolio ci sono cose che hanno fatto storia, dalle copertine degli album dei New Order ai cataloghi di Yohji Yamamoto, a vari sistemi di visual identity per gallerie d’arte. Ma l’immagine più forte di tutte è probabilmente quella dello stesso personaggio di Peter Saville, il creativo mondano, il Peter Pan poco raccomandabile. “Coltivare la propria immagine di playboy”, dice chi gli è stato molto amico, “è l’occupazione principale di Peter Saville”.
Saville è partito dal nord dell’Inghilterra, figlio di un mondo privilegiato, intelligente e ossessionato dalle corse di automodelli. Ultimo di tre fratelli, ha attraversato gli anni Sessanta da semplice spettatore, ma ha vissuto la propria adolescenza negli anni Settanta, modellando la propria sensibilità estetica sul cool glamour dei Roxy Music e del suo idolo Brian Ferry. Già quando ha iniziato a frequentare la scuola d’arte nel 1974, Saville sapeva che l’immagine è tutto.
Tra le sue opere c’è il primo poster di un nuovo club radicale a Manchester chiamato The Factory, che si può considerare come una dichiarazione programmatica. In tempi in cui erano all’ordine del giorno i personaggi nervosi e giocherelloni e i colori fluorescenti del punk, Saville produsse l’opera “più cool e meno casalinga” che poté. Si trattava di un montaggio di filetti spessi e di caratteri senza grazie accuratamente crenati, che riuniva classicità e modernità in quel modo particolare che avrebbe finito per diventare il marchio di Saville. L’implicazione di questo stile era che non si doveva parlare a tutta la gente, ma solo alla gente giusta.
Ancora lontano dalle fatiche e dalla competitività di Londra, Saville era libero di sperimentare ogni sorta di innovazioni. Con Tony Wilson e Alan Erasmus divenne partner di una nuova etichetta discografica locale chiamata Factory Communications, per la quale creò copertine per i gruppi che producevano il nuovo sound elettronico del nord; per quanto Saville sembrasse interessato, più che alla musica, a uno scenario che attraeva giovani temperamenti artistici desiderosi di lanciare nuove mode.
Saville riuscì a soddisfare le richieste e le stranezze di questi personaggi con lavori ben confezionati, recuperando immagini già esistenti con un approccio innovativo e aderendo in maniera puramente formale alle nuove tecnologie che condizionavano il loro mondo. Così una natura morta floreale dipinta da Henri Fantin-Latour decora la copertina di Power, Corruption and Lies dei New Order, mentre la cover da 12 pollici del singolo Blue Monday, del 1983, è fustellata in modo da assomigliare a un floppy disk. “Vidi per la prima volta un floppy quando andai a trovarli in studio di registrazione. Il brano dura sette minuti, quasi interamente sequenziati, e gli apparecchi di riproduzione lo suonano meglio di quello che fanno loro, così mi sembrava un’idea perfetta”.
Tuttavia nei primi anni Ottanta Manchester aveva un ruolo marginale, e così Saville dovette puntare su Londra. La gente amava il suo stile: lo stretto abbinamento di immagini provocatorie e caratteri curati fino all’eccesso, nonché la capacità di mischiare romanticismo e tecnologia, rispecchiavano meglio di qualsiasi altra cosa quello che avveniva contemporaneamente nel mondo della moda. In ogni caso gli incarichi arrivarono solo dopo un po’ di tempo.
Saville è ora un grande professionista, e spesso lavora con gente le cui abitudini non sono molto differenti dai suoi modi ostinati. Il suo perfezionismo lo rende incapace di rispettare quasi ogni scadenza che gli viene data, mentre la sua incapacità di andare a dormire a un’ora decente o di alzarsi a un’ora altrettanto appropriata la mattina riduce seriamente la sua predisposizione al lavoro d’ufficio e la possibilità che si presenti a qualsiasi appuntamento prima delle tre del pomeriggio. “Si sforza di raggiungere la perfezione”, dice il collega designer ed ex compagno di college Malcolm Garrett. “È famoso da sempre perché dopo una conversazione al telefono con qualcuno getta via gli appunti che ha preso e li riscrive meglio e in bella copia”. Il suo ingresso effettivo nel mondo della moda avvenne nel 1986 grazie al fotografo Nick Knight, che descrive la sua mancanza di puntualità come “la cosa che dà più incredibilmente fastidio in lui. Ma non la più interessante”. Knight aveva appena terminato una campagna per Yohji Yamamoto, e Saville era ancora distrutto dalla fine della relazione con una ragazza di nome Rachel. Knight lo condusse direttamente al cuore della moda, lavorando su cataloghi per Yohji, Jil Sander e Martine Sitbon.
Quando Pentagram, il gruppo internazionale di designer, lo invitò a diventare uno dei partner nel 1990, il playboy sempre a corto di soldi non poteva dire certo di no. A quei tempi Saville era disilluso. “Il design è diventato una nuova forma di pubblicità, ha finito per richiudersi su se stesso”. E c’era una recessione che faceva sentire i suoi effetti. Ma il lavoro con il gruppo fu un disastro. “Non provavano neppure a capire quali erano i suoi stimoli. Lo consideravano un tipo eccentrico o addirittura un ciarlatano”, dice Malcolm Garrett. Così presto il rapporto ebbe termine. Il periodo trascorso nell’agenzia di design Frankfurt Balkind di Los Angeles fu ancora più breve. Dal suo ritorno in Europa, la vita di Saville è stata costellata di progetti interessanti: il restyling quasi impercettibile di alcuni logotipi di case di moda; la collaborazione con Nick Knight per Showstudio, il suo sito Web interattivo di arte e moda; le copertine di album e CD di giovani band raffinate come i Pulp e gli Suede. Ma Saville sta ancora cercando di uscire dai guai, perennemente senza casa e ospite di amici che, per quanto celebri, non sono mai in casa. Continua a entrare e uscire dai debiti, assumendo e mandando via senza poter fare nulla i propri collaboratori.
Attualmente vive nel West London, a casa di uno stilista e di una modella che ai suoi tempi ha avuto un successo strepitoso. Lo studio di Ironmonger Row, nell’East London, non ha neppure il telefono. Ma c’è l’incarico per il redesign del logo della EMI a tenere lontano lo spettro della fame. Un volume sulle sue opere migliori sta quasi per andare in stampa, e una mostra al Design Museum servirà a ribadire ancora una volta perché Peter Saville è uno dei massimi arbiter elegantiarum britannici.
“Nei tardi anni Novanta, quando tutto quello che era successo dopo di me aveva fatto il suo corso, ci fu un momento di rivalutazione e venni elevato al sommo degli onori”, dice Saville. “Almeno avevo ancora una certa integrità. Non facevo copertine con i pannolini per Mothercare”. Poi si accende la decima sigaretta in un’ora. “Essere considerato integro accresce il mio senso di benessere. Mi dico: ‘Peter, non hai soldi, non vivi da nessuna parte, ma sei felice di essere quel che sei?’ E mi rispondo: ‘Certo, preferisco essere Peter Saville che chiunque altro’.”




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