Achille Castiglioni con la sua generosa opera progettuale ha dato una dimensione umana al design. Così lo ricorda Stefano Casciani

Castiglioni, l’Achille, è caro a milioni di persone, dai critici più intelligenti che ne hanno saputo individuare a tempo le straordinarie qualità artistiche alle persone che semplicemente ne acquistano e ne usano gli oggetti: e a tutti coloro – industriali, manager, committenti, amministratori pubblici, allestitori, modellisti, ma anche altri architetti, grafici, artisti, critici – che hanno collaborato con lui, fino agli operai che ne hanno visto le acrobazie comiche e talvolta pericolose sui pavimenti in cemento delle fabbriche e dei laboratori, sui parquet delle residenze più lussuose e dei musei più prestigiosi, e poi ancora in giro sulle moquette di fiere e manifestazioni, fino all’asfalto dei marciapiedi delle città. Perché non c’è parte, anche la più umile, del mondo costruito o da costruire secondo le sue idee, che Castiglioni non abbia progettato, riprogettato e percorso con il passo spedito e il sorriso sardonico, o semplicemente divertito, di una persona che ama soprattutto confrontarsi con la realtà vera, per tirarne fuori le migliori possibilità di espressione.
Non credo di averlo mai visto arrabbiarsi, neanche una volta, nemmeno nelle situazioni più spiacevoli: tutto quello che le contrarietà e la malagrazia del mondo e delle persone sbagliate possono strappargli sono al massimo una smorfia e una battuta nel suo amato dialetto milanese, un prendersi gioco della stupidità e delle assurdità purtroppo connaturate a un universo che non ha mai smesso di amare, probabilmente perché l’unico possibile.
Eppure Castiglioni sa anche reinventare le regole di questo e altri mondi: a cominciare da quello fisico, di cui ha sfruttato tutte le capacità esistenti e ne ha inventato di nuove, perché i suoi oggetti e progetti in qualche caso – in molti casi – superano le regole della fisica, della meccanica, dell’illuminotecnica, della statica ma anche, soprattutto, con caparbia e generosa ostinazione, quelle della produzione industriale e del marketing.
Interrogato sul mistero e la magia del suo metodo di lavoro che porta inevitabilmente ad oggetti indovinati, spiritosi, ovviamente ‘belli’ ma anche e soprattutto innovativi, Castiglioni ama ripetere spesso la battuta scherzosa: “Bisogna innanzitutto non tenere conto delle ricerche di mercato”. Con nove sole parole sgombra così il campo da miliardi di pagine di manuali, relazioni e consulenze dove – almeno da quando è stata inventata l’industria – tutta la questione del progettare oggetti per la serie viene ridotta al problema, all’obiettivo di fare oggetti “per il mercato”, questa specie di Moloch invadente e pervasivo sul cui altare da tempo molti sono disposti a sacrificare qualsiasi cosa. Castiglioni no: a lui interessa soprattutto che gli oggetti che devono (se proprio devono) portare la sua firma siano fatti per le persone di ogni tipo, purché dotate di un certo senso estetico e di una qualche motivazione funzionale ad usare gli oggetti stessi; una volta si sarebbe detto ‘bisogno’ o addirittura “bisogno reale”.
Qualcosa infatti di quei tempi in cui il design, con molta buona volontà, diciamo più o meno dal Bauhaus in poi, ha pensato di risolvere almeno in parte i grandi problemi, i ‘bisogni’ della società e delle persone, è rimasto radicato nel suo modo di lavorare, tanto da fargli parlare, nella fase più matura della sua attività, di un metodo, basato sulla individuazione della “componente principale di progettazione”: ovvero quell’elemento fondamentale intorno a cui ruota tutto il progetto. Questa ‘componente’ può essere funzionale, come nel caso ad esempio di una mazza per piantare pali nei vigneti (non un suo oggetto, ma uno dei tanti bellissimi e anonimi, che ama collezionare), in cui il peso determinante per la funzionalità dell’oggetto dà forma all’oggetto stesso; ma una componente può anche essere il puro divertissement, addirittura, come nel caso dello sgabello “sempre in piedi” Sella, un tic, quello di dondolarsi sulla sedia mentre si parla al telefono: “sgabello per telefono” era infatti il nome originale di questo eccellente ready-made.
Questa necessità di sistematizzazione, oltre che a spiegare il lavoro, gli è servita sicuramente anche da motivazione; dopo tanti anni di esperienza professionale in un settore in cui l’approssimazione, l’azzardo e la casualità (ad esempio nel successo di un prodotto) hanno almeno la stessa importanza di un’attenta pianificazione, Castiglioni ha voluto in qualche modo riscattarsi dall’idea di un suo mestiere tutto ‘artistico’: anche se eccezionalmente, proprio nel suo caso, una simile interpretazione sarebbe possibile. Tutto il suo lavoro potrebbe in effetti essere letto in una chiave di ricerca artistica, di grandissima intuizione e capacità nello stabilire e nell’individuare le forme, i materiali e le tecniche ad esse meglio corrispondenti, con l’abilità di creare opere che non hanno nulla da invidiare a un’opera d’arte, a una scultura o un’installazione.
L’elenco sarebbe lungo, anzi interminabile: dalla lampada Toio al sedile Mezzadro, dai sontuosi allestimenti per mostre come “Le vie d’acqua da Milano al mare” o “L’altra metà dell’avanguardia”, dai raffinati bicchieri doppi per Danese (volgarmente imitati da un altro designer, non italiano, per un’altra azienda, italiana) all’umile evaporatore in porcellana Fischietto, uno dei suoi ultimissimi prodotti. Eppure vedere tutto il lavoro di Castiglioni secondo una simile interpretazione sarebbe anche fare torto alla grande carica pedagogica della sua attività, che si è dispiegata non solo in tanti anni di insegnamento, prima a Torino poi a Milano, ma anche in decine e decine di conferenze un po’ in tutto il mondo: che, anche se regolarmente trasformatesi in straordinarie performance ‘mute’ o quasi (Castiglioni parla solo italiano, milanese e qualche parola di inglese e francese) che mandano in delirio il pubblico, contengono ben evidente il desiderio di comunicare, a qualunque costo e in qualunque modo, il contenuto razionale del progetto, o almeno di un certo modo di vedere il progetto.
Questa capacità di distacco, unita a una fortissima sensibilità autocritica, sono probabilmente due delle caratteristiche che hanno fatto di Achille Castiglioni un professionista abilissimo, e allo stesso tempo un personaggio tanto amato, si può dire anzi veramente popolare, tra generazioni di progettisti e, naturalmente, studenti. Quelli che come me hanno avuto la fortuna di conoscerlo bene non possono dimenticare la sua gentilezza, disponibilità e apertura, unite solamente, a volte, a una certa ritrosia, soprattutto negli ultimi anni, quasi una stanchezza per una fama e un seguito debordanti: peraltro meritatissimi, ma che prima o poi infastidirebbero chiunque.
Soprattutto chi come Castiglioni non ha mai smesso di ascoltare, di dare spazio ad altre voci, anche diverse dalla sua; da quella di altri designer, come l’amico Enzo Mari o i compagni d’avventura Max Huber, Michelino Provinciali, Heinz Waibl, Italo Lupi, Gianfranco Cavaglià, fino a quella di tutti gli anonimi giornalisti provenienti dai quattro angoli della Terra per cui (quasi) sempre sono rimaste aperte le porte del suo fantastico studio: vera wunderkammer ambrosiana, in cui il profumo di nebbia che arriva dal Castello Sforzesco si mescola alle risate di chi non può resistere alla sua allegria davvero contagiosa, quando inizia a spiegare il funzionamento di un rasoio a manovella, objet trouvé della sua collezione, o si dondola divertito sul sedile Mezzadro, confidando in segreto l’ultima gaffe di un qualche produttore, venditore, committente… Castiglioni attraversa con la sua grazia di gentiluomo d’altri tempi due secoli di cultura, società, invenzioni, tecnologie, ambizioni, frustrazioni, desideri e sogni di progetto, senza mai perdere ironia e autoironia. Per questo non si può far altro che stimarlo enormemente, come persona e come artista e, in fondo, volergli anche un po’ bene.
Ho cercato di usare il più possibile il tempo presente per scrivere qui di Achille Castiglioni, come si deve a una persona cara e viva tra noi. Non è solo un espediente linguistico, perché anche se Castiglioni se ne è andato per sempre, nel dicembre scorso, non si può che ricordarlo con lo stesso tempo in cui amava esistere per trasformare in eternità l’attimo fuggente della creazione, del linguaggio, del dialogo continuo che da artista pubblico non ha mai smesso di tenere con il mondo. Ci lascia centinaia di oggetti e progetti, disegnati da solo o con il fratello Pier Giacomo, un’eredità gioiosa e luminosa che non ci farà mai sentire la sua mancanza. SC

Jasper Morrison
Quand’ero ancora studente, per me Castiglioni era il modello del designer italiano: creativo, fantasioso e poetico, sapeva trasformare i bisogni della quotidianità in una realtà industriale.
La prima visita che feci al suo studio mi confermò tutto ciò che immaginavo del suo carattere, e anche di più. Mi mostrò alcuni pezzi della sua collezione di oggetti di design anonimo; fra questi un barattolino di plastica sottile, che conteneva un paio di occhiali da sole fatti con una striscia di pellicola polaroid da 35 mm: penso li avesse trovati in qualche esposizione universale in America. Un giorno qualcuno dovrà fare un museo della sua collezione: per ora ricordiamolo com’era, un uomo entusiasta di tutto, la cui visione del mondo rimarrà con noi per molto tempo ancora.

Italo Lupi
“La funzione, che bella forma”. Nessuna frase come questa di Achille potrebbe meglio spiegare Achille.
La leggerezza, così seriamente pensata di ogni suo oggetto, di ogni sua idea nasceva senza pregiudizi, esprimeva un’ironica felicità paradossale. Il suo muoversi agile, la sua eleganza naturale, la sua allegria, la sua eterna sigaretta, le sue cravatte sottili, il possesso mentale di ogni processo progettuale non convenzionale, sono tutte umanissime lezioni, appunto, di stile. Le occasioni di lavoro con lui sono state un privilegio grande e memorabile. Achille ha sempre progettato affetto e intelligenza.

Alessandro Mendini
Achille Castiglioni ha avuto una magica vocazione mimica. I suoi stessi oggetti sono come dei mimi, così come la sua persona è stata una macchina scenica. I suoi oggetti sono offerti alle persone per una giocosa mimica dell’uso. Minimalista un poco dadaista, il grande Castiglioni ha tenuto il suo pensiero molto lontano dalla retorica. In lui non ha agito il concetto intellettuale ma l’intuizione fattuale e il virtuosismo inventivo. Ha disegnato solo l’indispensabile, avendo come suo primo onesto interlocutore l’oggetto stesso. Una geniale mente che lavorava per sintesi, per competenza ed esperienza, la vera star, il vero atleta circense del design italiano.
La qualità progettuale e umana di questo nostro maestro non va cercata nei corridoi dell’Accademia, ma apprezzata entrando nel circo equestre dei suoi oggetti.

Richard Sapper
Achille Castiglioni era una delle prime persone che io ho conosciuto al mio arrivo a Milano alla fine del 1957. Era, con suo fratello Pier Giacomo, di cui mi sembrava inseparabile, una di quelle persone che allora mi fecero un’impressione profondissima. Era talmente evidente la loro personalità di veri gentiluomini, composta di umanità, cortesia e riservatezza, buonumore, intelligente buonsenso e tranquillità – evidentemente basata sulla loro coscienza delle proprie qualità professionali – che mi dicevo: “Già, deve essere facile essere tranquillo quando hai così tante idee geniali”.
Quando morì Pier Giacomo molto, troppo presto, sapevo che avevo perso un amico che per me rappresentava un ideale: per questo mi sentivo ancora più vicino ad Achille. Tutti sanno che è stato uno dei più grandi designer non solo dell’Italia ma del mondo, ma io voglio ricordare che è stato fino alla fine un vero gentiluomo e così voglio posare questo piccolo fiore sulla sua tomba.

Ettore Sottsass
Con Castiglioni ci vedevamo raramente, ci vedevamo di solito a qualche inaugurazione o a qualche party. Qualche volta ci vedevamo ai convegni dove si parla molto e non si dice niente. Ci guardavamo da lontano e ci sorridevamo come a dire: “Che cosa ci stiamo a fare qui?”.
Eccezionale di Castiglioni è che per lui il design, anzi, disegnare, voleva dire vivere, anzi, voleva dire scoprire a mano a mano la vita e forse voleva anche dire scoprire che la vita è così poco facile, così complicata, così fragile che l’unica cosa da fare è chiedersi: “Che cosa ci stiamo a fare qui?” e mettersi a sorridere e cercare della vita quelle zone nelle quali uno trova se stesso più o meno nudo, più o meno primitivo, più o meno disarmato, più o meno sollevato da terra.
Con Castiglioni ci vedevamo raramente ma adesso che lui non c’è più sento di aver perso un’amicizia necessaria, una di quelle amicizie che illuminano la strada dell’esistenza.

Giulio Cappellini
Quando mi veniva richiesto chi era, a parer mio, il più interessante giovane designer italiano, ho sempre risposto: Achille Castiglioni.
La sua curiosità, la sua ironia, la sua scanzonata genialità, tipiche di un giovane, hanno lasciato un segno senza tempo. Achille Castiglioni non ha mai disegnato un prodotto per la mia azienda, ma ha disegnato e condotto uno degli eventi più importanti nella storia della Cappellini, la mostra presso il Museum für Angewandte Kunst a Colonia nel 1996. Ricordo con piacere la grande energia e professionalità che ha profuso in questo progetto, trasmesse in modo assolutamente naturale a tutte le persone coinvolte. Ricordo, inoltre, lo stupore divertito di Tom Dixon quando lo accompagnai ad incontrare il grande maestro nel suo studio. La lingua non era un problema, i suoi oggetti parlano da soli e proprio usandoli quotidianamente ci rendiamo conto di quale patrimonio ci abbia lasciato Achille.

Alberto Alessi
Ho imparato tante cose da Castiglioni, da quando ormai molti anni fa mi venne incontro sorridendo riflesso nel grande specchio messo di sghembo all’entrata della sua stanza di lavoro nel grande studio di piazza Castello 27 a Milano. Che cosa mi ha insegnato, con quell’atteggiamento tutto suo e così raro tra i Maestri, di voler discutere delle cose con leggerezza insieme all’interlocutore piuttosto che di voler imporre la sua visione delle cose?
La curiosità verso gli altri, ciò che fanno e come agiscono; l’allenamento all’autoironia e all’autocritica; l’importanza del lavoro di ricerca, nel quale il designer rappresenta la sintesi espressiva di un lavoro collettivo di molte altre persone di diverse competenze; il fatto che l’esperienza non dà certezza né sicurezza, anzi aumenta le possibilità di errore: è proprio vero, come dice lui, più passa il tempo e più difficile diventa progettare meglio! Mi è stato prezioso raccogliere il suo antidoto: ricominciare ogni volta con umiltà e pazienza. E ogni volta che ricomincio lo sento vicino a me.

Piero Gandini
La sua ‘presenza’ intellettuale e morale era un grande rifugio. Eppure, anche sentendomi solo e gelato, non riesco a ricordarlo senza un sorriso. Inarrivabile!