La seconda vita di Prouvé
Deyan Sudjic incontra Rolf Fehlbaum
Fotografia di Lee Funnell

Rolf Fehlbaum ha un vero amore per l’opera di Jean Prouvé, che ha sempre visto come il riflesso di una sensibilità vicina a quella di Charles e Ray Eames: due figure storiche del design ormai strettamente associate a Vitra. Nello spettro estetico gli Eames stavano, secondo Fehlbaum, all’estremità della leggerezza, Jean Prouvé a quella opposta: sia gli uni che l’altro hanno però perseguito nel loro lavoro una qualità senza tempo, fondata su una misurata passione per gli aspetti organici della tecnologia. Il primo pezzo acquistato da Fehlbaum per la collezione del Vitra Design Museum è una sedia di Prouvé. A casa sua, mangia ogni giorno a un poderoso tavolo Trapezio di Prouvé, di ben 3,3 metri: ma ci sono voluti quasi vent’anni perché Vitra cominciasse a produrre le opere dell’uomo che Fehlbaum definisce “il meno conosciuto dei grandi designer del XX secolo”.

Il problema non è stato tanto ottenere i diritti (fino a poco tempo fa di proprietà di una società tedesca che ha prodotto riedizioni in serie limitate, e soltanto di pochi progetti) quanto l’impegno e lo scrupolo che Fehlbaum mette in qualsiasi cosa fa. Ogni questione filosofica ed etica per lui doveva essere risolta prima di lanciarsi nella produzione. I pezzi di Prouvé che possiede Fehlbaum dimostrano l’età che hanno, sono sciupati e consumati dall’uso e dal tempo: avrebbero perduto il loro fascino se fossero stati perfetti, come appena usciti dalla fabbrica, se il metallo di cui sono fatti fosse stato rivestito di resina epossidica invece che laccato? Il solo modo di saperlo era rifarli. La tecnologia usata da Prouvé è ancora adeguata? Fortunatamente la risposta si è rivelata positiva. “Il taglio al laser e le macchine computerizzate hanno reso possibile realizzare prodotti che, fatti a mano, oggi non sarebbero più economicamente convenienti”. E soprattutto, era il caso di mettersi a produrre un progetto vecchio di settant’anni? “Molte riedizioni sono in realtà superflue”, afferma Fehlbaum. “Perché qualcuno, a meno che non sia un collezionista, dovrebbe volere una sedia di Frank Lloyd Wright, per esempio?” Per Fehlbaum la sola giustificazione del recupero di un pezzo dal ristretto mondo dei musei e dei collezionisti è che questo possa ancora essere sentito di questo tempo, anche se è nato in un altro. La durata storica dell’opera di Prouvé sta nella nuda essenzialità dei suoi oggetti e in un modo di conformarsi alle leggi della meccanica, che, secondo Fehlbaum, dimostra un’affinità con l’approccio degli Eames e di Vitra. “I grandi progetti obbediscono sempre a due criteri, anche all’apparenza contraddittori: devono far sentire che seguono le regole della razionalità, della necessità, e al tempo stesso devono esprimere il senso del soggettivo e del personale”. Soltanto dopo aver risolto queste questioni, Fehlbaum ha cominciato a considerare i dettagli tecnici.

Quali pezzi esattamente, e quali versioni sarebbero entrati a far parte dell’edizione Prouvé? In molti casi, nonostante la piena collaborazione della famiglia, è stato difficile individuare quale fra le molte varianti di un certo progetto dovesse essere considerata la più autorevole. Il primo gruppo di pezzi prodotto per questa edizione è dunque costituito da quattro tavoli (che entusiasmano particolarmente Fehlbaum), tre sedie, una lampada e un coltello: altri verranno.