Viaggio nelle facoltà di architettura: parte 3

Nel dicembre del 1976, con il Politecnico di Milano, si conclude il viaggio compiuto da Domus per descrivere le occupazioni e lo stato di crisi presente nelle facoltà di Architettura italiane a circa un decennio dalle rivolte della fine degli anni '60.

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Pubblicato in origine su Domus 565 / dicembre 1976

Terzo viaggio di Agnoldomenico Pica nelle facoltà di Architettura: Milano
Negli anni fra il 1920 e il 1930, presso il Politecnico milanese, era istituita una cattedra di Letteratura italiana occupata da Ettore Cozzani, le ispirate lezioni del quale erano accuratamente disertate, perché, bene o male, chi accedeva al Politecnico la letteratura italiana, sia pure ommariamente, l'aveva già frequentata alle medie del tempo. Mi accorgo che oggi, nella "avanzata" facoltà mediolanense di architettura la cattedra esiste ancora ed è affidata a un personaggio di solida preparazione e di vivace ingegno come Mario De Micheli. Ignoro se le lezioni di De Micheli siano, o meno, seguite, devo tuttavia notare l'incongruenza di un insegnamento di questo genere per motivi opposti a quelli invocabili per il primo trentennio del secolo.

Oggi alla Facoltà di architettura una cattedra del genere rappresenta un lusso sproporzionato, quando, invece, sembrerebbe urgente istituire corsi accelerati e obbligatori di grammatica, di analisi logica e, se possibile, di sintassi per gli allievi e, innanzitutto, per buona parte dei docenti, onde evitare che questi ultimi insistano a drappeggiare il nulla entro le cortine fumogene – o lacrimogene - del "criptolinguaggio" caro ai nostri politici. Squarci di codesta criptoprosa ne abbiamo letti anche troppi: il più recente è stato pubblicato nel Corriere della Sera del 18 ottobre 1976 a firma di Guido Canella, direttore dell'Istituto di Composizione architettonica. Canella parla di "rifondazione" della facoltà: ottima idea, ma, fra l'altro, gli si potrebbe osservare che dal 1963 sono ormai tredici anni che la facoltà, a opera di docenti, studenti e "commissari politici" si va rifondando, tanto che oggi, dopo tanto rifondare, ci si accorge che la Facoltà affonda. Non sono io a dirlo, lo constata - con amarezza che fraternamente condivido - uno dei principali artefici della rifondazione, il preside Paolo Portoghesi, che, il giorno 19 ottobre dell'anno corrente, presentandosi al Consiglio di Facoltà come dimissionario e ricordando il molto lavoro svolto osservava come l'attuale facoltà risponda alla domanda degli studenti "solo in astratto, formulando programmi che poi non è in grado di svolgere".

A questo punto, o mal punto, il preside uscente riteneva necessario "un drastico mutamento di rotta" che possa portare la scuola "fuori dalle secche della demagogia, della contrapposizione esasperata delle tendenze e delle semplicistiche, idealistiche identificazioni di didattica e ricerca, di impegno disciplinare e impegno politico, di trasmissione e sviluppo del sapere". L'illustre docente, che accoratamente pronunziava queste parole e che oggi si ritrova contestato dall'ala marciante della "base" studentesca, è poi il medesimo che promosse, o consentì, episodi piuttosto sconcertanti, da quella sorta di comizio tenutosi in facoltà dagli abusivi sloggiati dalle case popolari a quella sorprendente delibera, emanata il 6 dicembre '74 dal Consiglio di Facoltà, in cui si decide che per l'assegnazione di incarichi, in caso di parità, si debba dare la preferenza a chi abbia svolto la propria attività "nella linea politico-culturale espressa dalla facoltà stessa", linea, tartufescamente non specificata, ma notissima. La monolitica confessionalità, di stile gesuitico, di cui non sono immuni altre Facoltà, sembra dunque, qui a Milano, essere giunta alla sua più compiuta, patente e nefasta espressione. È Vittoriano Viganò, fonte non sospetta, a farmi notare come le delibere del Consiglio siano condizionate da pressioni politiche attraverso i rappresentanti sindacali e i commissari di varia etichetta ma eguale estrazione.

Terzo viaggio di Agnoldomenico Pica nelle facoltà di Architettura: Milano. Domus 565 / dicembre 1976. Vista pagine interne

Innumerevoli gli episodi che dimostrano l'effettivo - anche se involontario - disinteresse per le finalità artistiche e scientifiche che la scuola dovrebbe proporsi; mi limito a ricordarne uno che ebbe per protagonista Cesare Stevan, il quale, da quanto mi risulta, ottenne l'incarico di insegnante di storia dell'arte esibendo come titolo il rilievo, da lui eseguito in qualità di perito, degli uffici della Questura di Milano in occasione di un importante processo politico, dopo di che, il medesimo, ormai professore incaricato, passò dalla Storia dell'arte alla Scienza delle costruzioni: può anche essere che lo Stevan, che non conosco, sia adattissimo alle due funzioni, tuttavia l'excursus per arrivarci non pare del tutto ortodosso. Che tutto questo risulti deviante è fin troppo palese, e tuttavia mi sento ripetere e dai già citati Portoghesi e Viganò e da Gentili Tedeschi - cioè da personaggi di cui non ho ragione di revocare in dubbio le affermazioni - che la Scuola di Milano è di gran lunga la più avanzata: "la nostra Facoltà – dice Portoghesi - è ancora all'avanguardia del rinnovamento, presenta il quadro forse più aperto ed avanzato di collegamento teorico della disciplina con le lotte sociali e le istituzioni democratiche".

Terzo viaggio di Agnoldomenico Pica nelle facoltà di Architettura: Milano. Domus 565 / dicembre 1976. Vista pagine interne

Probabilmente parliamo due linguaggi diversi: i miei amici alludono alla partecipazione, più o meno turbolenta, più o meno utile, alle contese politiche e alle eterne risse sociali, partecipazione nella quale, lo si è già detto, la facoltà milanese eccelle, ora, invece, ci si preoccupa della formazione dei futuri architetti, anzi della futura architettura, che, proprio dalla scuola, dovrebbe nascere, e nascere felicemente. Dal punto di vista strettamente didattico non sembra che la situazione sia proprio brillante come viene dipinta. Per i riguardi logistici le condizioni, sebbene non esemplari, appaiono migliori che in altre Facoltà. I due edifici di via Bonardi n. 3, quello più alto e recente, in cui sono alloggiati gli istituti, e quello che ospita presidenza, segreteria e aule, sono, è vero, ridotti al rango di caserme borboniche in abbandono, tappezzate di vecchi e nuovi manifesti e di pittoresche scritte allo spray, mostrano cicatrici che nessuno pensa di rimarginare, però la sporcizia è, almeno, limitata, gli uffici di segreteria funzionano regolarmente, i servizi igienici sono frequentabili: è già un risultato.

Diverso il discorso circa la posizione avanzata di cui si diceva dianzi. Mi sarei aspettato un ordine di studi comprensivo, oltre che delle tradizionali, anche di discipline nuove e, magari, avveniristiche, come potrebbero essere la fotogrammetria, le applicazioni del calcolatore elettronico alla statica e alla programmazione urbanistica, le tensostrutture, le strutture pneumatiche, la prefabbricazione leggera e pesante, la costruzione in orbita di satelliti artificiali, ecc., ché i temi non mancano, anzi aumentano ogni mattina; mi sarei pure atteso modesti corsi, sia pure facoltativi, di lingue straniere. Nulla di tutto questo, salvo un corso facoltativo, poi tralasciato, circa l'impiego del calcolatore. Quanto alle lingue, si è già detto: siamo fermi a un pleonastico corso di letteratura italiana, non solo, ma pure le materie tradizionali presenti in tutte le facoltà, ove non siano soppresse tout court, come nel caso della Meccanica razionale o della Mineralogia, compaiono nell'ordine degli studi a non vengono praticate regolarmente, sia, talvolta, per trascuratezza o lassismo dei docenti, si,a per la disaffezione dei discenti, che sarebbero 5.600, ma dei quali soltanto un'esigua percentuale (dal 10 al 20 %) si interessa della scuola come fonte di sapere.

Di questa esigua parcella ho interrogato qualche componente come gli studenti Rosmary Pirotta e Matteo Licitra o i neolaureati Giorgio Albertella e Herman Vahramian e altri. Varie le osservazioni, ma una comune a tutti, salvo in un solo caso, l'ammissione cioè di non avere imparato nulla dalla scuola. Si faccia pure la tara ad asserzioni che risentano della tipica reattività giovanile, ma qualche dubbio è lecito nutrirlo. Ritenuta irrecusabile la "scuola di massa" come fenomeno "anche qualitativo", tanto che, mi dichiara Viganò, "la nostra Facoltà non accetterà mai il numero chiuso", ammessa di fatto la non-selettività, si è proceduto all'azzeramento della scuola tradizionale (che nessuno rimpiange), e finalmente si è passati alla individuazione dei problemi e alla proposta dei medesimi ai vari gruppi o "collettivi" di studio formati da docenti e allievi.

Terzo viaggio di Agnoldomenico Pica nelle facoltà di Architettura: Milano. Domus 565 / dicembre 1976. Vista pagine interne

Tutto bene, sennonché dai documenti ufficiali ("Notiziario della Facoltà di architettura del Politecnico di Milano") emerge che i problemi di cui si tratta si esauriscono nel campo dell'analisi territoriale, assumendo la città come luogo della lotta di classe, il che vorrebbe dire concepire la città come un campo trincerato in perenne stato di allarme. Nella fattispecie le ricerche avviate nell'anno accademico 1975-76 riflettono "L'area meridionaie lombarda quale luogo emblematico del sottosviluppo in territori sociali definiti storicamente dall'agricoltura", e "I territori montani della Lombardia quale luogo di massima disgregazione economico-sociale e di abbandono e distruzione delle risorse territoriali". Si tratta di temi di primario interesse, ma ci si chiede come mai possano essere affrontati da giovani a cui non sono stati forniti quegli strumenti elementari che normali corsi propedeutici dovrebbero dar loro. Sono frequentatore e cultore della "ricerca", ma proprio per questo so che essa potrà servire a formare, se tutto va bene, dei discreti analisti, non già a stimolare quella attività inventiva che, per un architetto, dovrebbe essere essenziale.

L'idea, qui praticata, di tradurre l'architettura in "discorso" anzicavere altri esiti se non bizantinamente curialeschi. La mitizzazione della "ricerca" ha avuto, qui a Milano, episodi-limite sconfinanti nell'umorismo, come nel caso di quel gruppo di candidati che si è presentato a Clemente Bernasconi pretendendo l'approvazione nell'esame di Geometria descrittiva in seguito alla presentazione di una "ricerca" così intitolata: "Il paternalismo nell'azienda durante il periodo fascista". L'approvazione non fu accordata e, oggi, il Bernasconi è contestato e, naturalmente, accusato come bieco reazionario. De ore tuo, Paule: urge un "drastico mutamento di rotta". Al nuovo preside la pesante incombenza e i miei più fervidi auguri.