Steve McQueen e la verità del video. Il video può dire la verità?

La personale dell'artista e regista londinese è soprattutto una magistrale lezione sul video per una società che ne sembra ossessionata.

È il primo piano della parte superiore del cranio di un uomo, disteso su un tavolo, apparentemente immobile, i capelli rasati che spuntano dalla pelle che si ritira sull'osso, una lunga cicatrice che attraversa la calotta cranica e gliela taglia in prossimità dell'osso occipitale come un sorriso che verso il centro si fa sghembo per poi recuperare simmetricità. Proiettata in grandi dimensioni nella piccola stanza buia arredata solo con una panca squadrata, questa diapositiva a colori è accompagnata da un audio lungo 23 minuti. È il racconto in prima persona di un uomo che ricorda come, inavvertitamente, ha ucciso suo fratello con un colpo di pistola; di come l'ambulanza sia arrivata tardi e la polizia quasi subito; e di sua madre, morta mentre lui era in carcere, probabilmente per il dolore di avere perso due figli con un unico sparo. La foto evidentemente è quella del fratello, passato presente e futuro del racconto, icona diacronica di un evento che ha cambiato in pochi istanti almeno tre vite. La voce narrante, l'assassino, è di Marcus, cugino dell'artista e regista britannico Steve McQueen. 7th Nov. rappresenta l'opera narrativamente più lineare della esposizione in corso alla Tate Modern, che raccoglie praticamente tutta la più recente e rilevante opera video di McQueen. 7th Nov. risale al 2001; nel 2020, e fuori dai soliti schemi suona un po' come un podcast.

7Th. Nov (2001) © Steve McQueen.

Sottoterra, poi sull'isola

Difficile non notare che assomiglia quasi a una lunga trafila di Instagram Stories d'autore Western Deep, il video del 2002 originariamente prodotto per documenta 11  su commissione di Okwui Enwezor, che segue la discesa nelle viscere della terra dei minatori della TauTona, a pochi chilometri da Johannesburg, la più vasta miniera d'oro del mondo. È un viaggio in soggettiva con un alternarsi claustrofobico  e sincopato di immagini intervallate dal nero più profondo, e poi dal nero in tutte le sue sfumature dal buio pesto all'unico dettaglio sgranato in controluce. “Volevo scattare qualcosa che avesse grana, che si incollasse a chi guarda”, così spiega la scelta del Super 8 per questo progetto Steve McQueen, “volevo qualcosa a cui lo spettatore si aggrappasse, che avesse una trama, la trama della roccia, della trivellazione e dell'estrazione del metallo. Volevo che il pubblico percepisse le molecole di polvere”. 

Charlotte, 2004 © Steve McQueen. Courtesy Steve McQueen, Thomas Dane Gallery and Marian Goodman Gallery

Nel 1649 una spedizione guidata da tal Jacques Dyal Du Parquet, un soldato francese passato alla storia per essere stato tra i primi governatori della Martinica, installò un avamposto di 203 uomini nell'isola di Grenada. La pace firmata con il capo locale Kaierouane durò poco; due anni più tardi i caribici, sconfitti, piuttosto che arrendersi preferirono un salto nel vuoto di 43 metri. Il padre di Steve McQueen è originario di quell'isola, che si trova a nord del Venezuela, e Caribs' Leap il titolo dell'opera del regista esplicitamente ispirata a quell'olocausto volontario, durante il quale si alternano luci e tenebre, ragazzini che nuotano nell'acqua, una cappella funeraria, barche che vanno a fuoco. Le immagini di vita quotidiana riprese da McQueen sono al tempo stesso il testimone di una resistenza e una celebrazione del ciclo della vita. Si compone di due video, uno viene mostrato all'aperto, in grandissimo formato sulla parete della Tate Modern rivolta verso il fiume Tamigi.

Quando riconosci qualcosa, è davvero quello che credi o ti porterà da qualche altra parte? È un innesco. Ed è intangibile

L'unicità di McQueen

Caribs' Leaps fu presentato a documenta 11 insieme a Western Deep. Quello delle coppie è un gioco che McQueen pare amare particolarmente e che ritorna anche in questa esposizione. L'ingresso alla mostra, che procede da un tunnel buio a una sala enorme e ugualmente buia, si spalanca sul video della Statua della Libertà ripresa da un elicottero a pochi giorni dall'11 settembre (Static): “Puoi vedere i nidi di gabbiano nell'incavo dell'ascella, gli occhi anneriti, e come sia rovinata e scolorita la livrea”, ha raccontato McQueen intervistato al curatore d'arte americano Hamza Walker”. Dall'altra parte della sala Once upon a time, che ripresenta le cento e più immagini lanciate nello spazio nel 1977 con le sonde Voyager. In Charlotte, tutto virato al rosso, il dito del regista indugia intorno all'occhio in primo piano dell'attrice Charlotte Rampling (“quando l'ho toccato ho sentito una scossa elettrica“), e a pochi metri di distanza il capezzolo dello stesso McQueen è protagonista di Cold Breath, girato su 16mm in bianco e nero nel 1999. Costituiscono l'esempio nella forma più basilare ed esplicita di quello sguardo fatto di movimenti di camera e tempi dilatati che sta alla base di tutta l'opera di Steve McQueen e che si può vedere sia nei video, come in Girls, Tricky, in cui la macchina da presa è come appiccicata alle movenze ipnotiche del dio della trip-hop, sia nel cinema, come nella lunga, snervante scena dell'impiccagione del film che ha reso celebre il nome di McQueen al grande pubblico, 12 Anni Schiavo. Al centro della sua arte, scrive Clara Kim, The Daskalopoulos Senior Curator, International Art della Tate Modern, nel lungo saggio che apre il catalogo della mostra, “la capacità che l'immagine possa arrivare a una qualche forma di verità”, e riporta a tal proposito le parole dello stesso McQueen intervistato dalla BBC: “Quello che mi interessa è la verità e spesso le cose più orrende succedono in posti meravigliosi. Non posso mettere un filtro alla vita, la questione è non chiudere gli occhi”. Probabilmente l'unico artista vivente al suo posto sul palco degli Oscar come in un museo d'arte contemporanea, impegnato nella creazione di una installazione o di un progetto per le scuole o di un action movie con Liam Neeson.

Illuminer, 2001 © Steve McQueen. Courtesy Steve McQueen Thomas Dane Gallery and Marian Goodman Gallery

Un mondo di video

Nel 2019 sono state caricate 300 ore di video su YouTube al minuto. Sui vagoni di qualsiasi metropolitana del pianeta difficile trovare qualcuno che non sia assorbito dentro Instagram. Il video, che sia uno spezzone, un frammento, foto in movimento, è ovunque. Siamo costantemente esposti al video e costantemente ne produciamo e condividiamo. È un dato che non può non essere considerato quando si parla di Steve McQueen. Artista e regista cinematografico, il suo approccio al video è totalizzante. Ne è uno dei più grandi maestri contemporanei e dalla contemporaneità non si sottrae. Se nel video affoghiamo, il suo sguardo cerca di tenere a galla la realtà. E lo fa incrociando narrazione e movimenti di macchina, inquadrature e tempi di ripresa. Con uno sguardo che passa dall'attuale all'intimo senza soluzione di continuità, come in Illuminer: Steve McQueen, in un albergo di Parigi, guarda un programma sull'addestramento delle forze speciali americane per una missione in Afghanistan; è a letto, e la videocamera, posizionata sul televisore, unica fonte di luce in una camera altrimenti completamente buia, lo riprende. Il suo corpo, nel riflesso che arriva dal mondo, è protagonista.

12 Anni Schiavo, 2013

“I ragazzini neri erano esclusi”

12 Anni Schiavo esce nel 2013. Terzo lungometraggio di McQueen, il primo non scritto da lui, è sicuramente il più popolare, in tutti i sensi, tra i suoi film. Vince un po' tutto: Oscar, Bafta, Golden Globe e viene salutato come uno dei migliori film (il migliore?) mai realizzati sulla schiavitù. È la passeggiata nell'inferno dell'America schiavista di Salomon Northup, un uomo libero, dipinto nel film come talentuoso violinista dello stato di New York, che viene rapito e finisce in catene per dodici anni, una sorta di Gulliver afroamericano che viaggia in un mondo parallelo in cui gli uomini non sono più piccoli o più grandi, ma liberi a seconda del colore della pelle. Un film insieme bellissimo e brutale, che solleva anche più di una critica, chi lo accusa di troppa moderazione, chi di eccessi. È il film di un'America in fermento, l'anno successivo è quello dell'esplosione di Black Lives Matter, della morte di Michael Brown ed Eric Garner, dell'inizio di un lungo corso di manifestazioni e proteste. 12 Anni Schiavo è una storia americana diretta da un ragazzo di Londra figlio di emigrati caraibici, cresciuto a Ealing, il “queen of suburbs” a inizio secolo scorso. Frequenta una scuola multiculturale, il fatto di essere un mezzo fenomeno del pallone lo aiuta non poco per integrarsi, come ha raccontato lui stesso. Ma la dislessia e il colore della pelle sono una barriera. Steven Rodney McQueen, recentemente proclamato cavaliere dalla Regina, ha conosciuto il razzismo, la disparità, il bullismo, che rimangono temi inestricabilmente connessi a tutta la sua arte e la trainano anche al di là dei suoi enormi valori formali. Year 3 è una raccolta di foto che nasce proprio nelle scuole 20 anni fa, a partire dall'esperienza scolastica di McQueen, dalla sua dislessia e dall'emarginazione: “c'erano molte situazioni in cui i ragazzini neri venivano esclusi”, racconta lui stesso. In mostra alla Tate Britain, il progetto nasce dal tentativo di scattare in ogni scuola di Londra. E sempre Londra, la città dove è cresciuto e da cui a un certo punto se n'è andato, per studiare in America, per vivere ad Amsterdam, è protagonista di Grenfell, il video sulla torre-ghetto nel cui incendio sono morte 72 persone nel 2017. L'edificio si trovava a meno da un miglio da White City, dove McQueen è cresciuto. “Alcune persone muoiono perché sono marginalizzate. Questo è Grenfell per me”.

Foto dell'installazione di Once Upon a Time (2002) e Static (2009) alla Tate Modern © Steve McQueen. Courtesy Steve McQueen, Thomas Dane Gallery and Marian Goodman Gallery © Photo: Luke Walker

La parabola di Ashes

È una storia di morte e marginalità anche quella di Ashes, che fa da ideale conclusione di Caribs' Leaps, riportando l'attenzione dalla collettività al singolo. L'Ashes del titolo è un uomo di Grenada che Steve McQueen incontra mentre è sull'isola per girare le riprese del video che andrà a documenta 11; colpito dal suo carisma, decide di riprenderlo: “sembrava che non ci fossero limiti su chi volesse essere e come si presentava”. Così McQueen e Robby Muller, il direttore della fotografia che era con lui, scomparso nel 2018, salgono su una barca e riprendono Ashes: di spalle, che rema, la sua vitalità incastonata tra i colori saturi del cielo caraibico e lo sciabordare del mare mentre lo solca.

Ashes (2002-2015) © Steve McQueen. Courtesy Steve McQueen, Thomas Dane Gallery and Marian Goodman Gallery © Photo: Luke Walker

McQueen scopre che l'uomo è morto poco quell'incontro dopo solo molti anni più tardi, quando torna a Grenada. Così, quel giro in barca con Ashes diventa Ashes. Un'opera video doppia e bifronte, la cui installazione alla Tate Modern prevede uno schermo che taglia a metà una saletta, a cui si accede dai due differenti bracci di uno stretto corridoio. Da un lato Ashes in tutta la sua vitalità, dall'altro la sua vita dopo la morte, con la tomba che lo stesso McQueen ha fatto costruire per lui, dopo avere scoperto che era stato sepolto in un cimitero per poveri. La voce narrante è quella di un amico, che racconta la morte del grenadino, ucciso perché aveva trafugato una partita di droga.
La vicenda di Ashes, che può essere vista come un fattaccio di cronaca nera e insieme come la rappresentazione esemplare di quanto sia difficile sopravvivere, letteralmente, in una economia dove la povertà è dilagante, è anche un racconto parabolico di quella procedura a inneschi che lo stesso McQueen mette alla base del suo ragionamento sull'immagine e sulla conoscenza. “Le cose che riconosci sono quelle che riconosci”, spiega lui. “Tuttavia, quando riconosci qualcosa, è davvero quello che credi o ti porterà da qualche altra parte? È un innesco. Ed è intangibile”.

Mostra:
Steve McQueen
Dove:
Tate Modern, Londra
Indirizzo:
Bankside, Londra SE1 9TG
Fino a:
11 maggio 2020

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