L’arte come esplorazione ed esperienza dello spazio, del corpo e delle percezioni: fin dagli anni Cinquanta, Lygia Clark (1920-1988) porta avanti le sue sperimentazioni muovendosi sui confini tra pittura, scultura e architettura. In mostra alla Neue Nationalgalerie di Berlino fino al 12 ottobre e poi alla Kunsthaus Zürich dal 14 novembre all’8 marzo 2026, il suo lavoro propone una riflessione sullo spazio condiviso, sulla tensione tra forma e movimento, e sull’arte come processo relazionale più che come oggetto definito.
Durante una conferenza alla Scuola di Architettura di Belo Horizonte nel 1956, Lygia Clark propone di superare la separazione tra le discipline, suggerendo una stretta collaborazione tra arti visive e progettazione architettonica, verso un pensiero spaziale insieme architettonico e pittorico. Le sue maquette modulari suscitano l’interesse di architetti come Oscar Niemeyer e Affonso Reidy, che le considerano contributi innovativi per le teorie di progettazione moderna.
Già la serie Superfícies moduladas della fine degli anni Cinquanta, trasforma i motivi geometrici dei dipinti di Clark in sistemi tridimensionali modulabili e flessibili, ipotesi di spazio abitativo alternativo che dialogano con l’utopia modernista e le esigenze sociali di abitazioni adattabili. Con il Manifesto Neoconcreto del 1959, e poi con progetti come Construa você mesmo o seu espaço de viver (1960), Clark traduce queste idee in dispositivi concreti: spazi con pareti mobili e configurazioni variabili, in cui l’abitante diventa co-creatore.
La serie Estruturas de Caixa de Fósforos (1964) è un'ulteriore evoluzione di questo approccio: scatoline di fiammiferi assemblate in costruzioni geometriche monocrome, che proprio grazie a questa omogeneità cromatica perdono la loro identità di oggetto quotidiano, diventando elementi che giocano con il ritmo spaziale, l’equilibrio e l’interazione volumetrica. L’opera non è più solo astrazione visiva, ma strumento critico nei confronti della rigidità del modernismo ufficiale. La proposta è quella di un’architettura vivente, dinamica e partecipativa, che anticipa le pratiche di design organico e di autocostruzione urbana tipiche delle periferie brasiliane.
Questa retrospettiva – la prima completa dedicata a Clark sia in Germania che in Svizzera, e la più grande al mondo dopo quella al MoMA di New York nel 2014 – è un’occasione unica per ripercorrere la vicenda biografica e artistica di una delle figure più radicali del Novecento, dai dipinti degli anni Quaranta, ai Bichos (animaletti) degli anni Sessanta, fino alle opere performative e terapeutiche degli anni Settanta e Ottanta. Per Lygia Clark costruzione, movimento e partecipazione diventano strumenti per ripensare non solo il linguaggio dell’arte, ma anche le modalità di abitare e vivere lo spazio.
Gli inizi e il Neoconcretismo
Nata a Belo Horizonte nel 1920 con il nome di Lygia Pimentel Lins, Clark intraprende il suo percorso a Rio de Janeiro negli anni Quaranta, con l’architetto Roberto Burle Marx e l’artista Zélia Salgado. La sua formazione avviene nell’ambito della pittura, da iniziali prove figurative passa rapidamente all’astrazione geometrica e al Concretismo, per poi spingere la pittura verso un campo più sperimentale. Nel 1950 si trasferisce per un breve periodo a Parigi, dove studia con Fernand Léger, integrando alcune istanze delle avanguardie europee nel suo linguaggio. In questi anni indaga la relazione tra forma e spazio, modulando superfici, linee e colori per oltrepassare i limiti del quadro tradizionale.
Tornata in Brasile, insieme a Hélio Oiticica, Lygia Pape, Amilcar de Castro e Ferreira Gullar, Lygia Clark diventa una delle figure centrali del Neoconcretismo, movimento che emerge alla fine degli anni Cinquanta come reazione al razionalismo e all’oggettività scientifica dell’arte concreta del gruppo di San Paolo. Clark abbandona la rigidità geometrica e si sofferma sull’importanza dell’esperienza dei partecipanti rispetto all’apparenza dell’oggetto, privilegiando il coinvolgimento sensoriale, la partecipazione attiva e la dimensione poetica dell’arte. Con Caminhando (1963), un semplice nastro di carta a forma di nastro di Möbius che i partecipanti tagliano seguendo percorsi infiniti, Clark abbandona il ruolo di autrice: l’opera non è più un oggetto finito, ma un gesto aperto, ripetibile e trasformabile da chiunque. È in questo momento che matura la nozione di “proposizione”, termine con cui definirà i suoi lavori: inviti all’esperienza, dispositivi sensoriali, più che opere da contemplare.
Il passo successivo arriva con i Bichos, sculture metalliche articolate che invitano alla manipolazione e all’interazione. Questi “animaletti” d’alluminio, realizzati a partire dalla metà degli anni Sessanta, rappresentano la risposta più radicale al problema della scultura come oggetto autonomo. Per Clark non ha senso esporli chiusi in teche: sono organismi dinamici, che prendono vita solo attraverso l’azione del partecipante. Alla Neue Nationalgalerie se ne trovano repliche autorizzate accessibili al pubblico, che possono essere attivate dai visitatori, piegandole e modificando la loro forma. Le loro superfici argentate si aprono e si richiudono in forme sempre diverse, sfidando la distinzione tra scultura e pittura, tra stabilità e trasformazione. Nei Bichos si condensa la visione neoconcreta: superare l’oggetto, restituire il primato all’esperienza, e riaffermare il corpo come generatore di senso.
Parigi e le architetture del corpo
Il 1968 segna un momento decisivo per Lygia Clark, che quell’anno partecipa alla Biennale di Venezia e si trasferisce a Parigi, dove rimarrà in esilio fino al 1974, per via della dittatura militare nel suo Paese. Qui amplia le sue proposizioni in esperienze collettive, che chiama Arquiteturas biológicas. Con materiali poveri – plastiche, elastici, reti – costruisce spazi effimeri, tunnel, bozzoli in cui i corpi dei partecipanti diventano parte dell’opera stessa.
Lavori come O eu e o tu (1967) o Ovo-mortalha evocano nascita e morte, protezione e costrizione, creando strutture organiche dove l’individuo è cellula di un corpo collettivo. In questi lavori risuona la fenomenologia di Merleau-Ponty, per il quale il corpo non è un oggetto tra gli altri nel mondo, ma è la “carne” stessa del mondo e la condizione dell'esperienza che ne rende possibile la percezione. Quando nel 1972 è invitata dalla Sorbona a tenere un corso sulla comunicazione gestuale, Clark ha la possibilità di esplorare più a fondo con il suo gruppo di studenti le idee di alcuni lavori performativi precedenti, come Baba antropofágica e Canibalismo, entrambe formalizzate per la prima volta nel 1969. Fili imbevuti di saliva intrecciati attorno a un corpo sdraiato, o frutti mangiati da partecipanti bendati su un ventre umano, le performance riattualizzate con la collaborazione dei suoi studenti abbracciano la natura enigmatica del corpo, in un’azione che diventa quasi un rituale senza pubblico esterno, e dove i partecipanti stessi sono costruttori di senso attraverso il dialogo e la condivisione. L’esperienza richiede un coinvolgimento totale, non solo culturale e sociale ma anche corporeo, biologico, con il fine di dare vita a quello che Clark definisce “corpo collettivo”.
Nelle lettere all’amico Hélio Oiticica Clark parla di “diventare un bicho autentico”, di esperienze che scardinano l’ego per svelare desideri e paure primarie. Non si tratta di spettacoli voyeuristici: il corpo è al tempo stesso medium artistico e terreno di resistenza politica, una risposta indiretta alla violenza della dittatura brasiliana che Clark, dall’esilio, osservava con angoscia.
Dalla partecipazione alla terapia
Negli anni Settanta la ricerca di Lygia Clark intraprende una svolta decisiva verso la dimensione intima della terapia. Ispirata anche dalle teorie di Donald Winnicott sugli oggetti transizionali, l’artista sviluppa i suoi Objetos Relacionais: conchiglie, pietre, collant pieni d’acqua, sacchetti, guanti imbottiti con materiali dalle consistenze più varie. Oggetti della quotidianità che, nelle mani dell’artista, diventano strumenti di trasformazione. Utilizzati durante le sedute con pazienti psichiatrici, questi dispositivi miravano a ricostruire un’immagine corporea frammentata, a risvegliare memorie sensoriali dimenticate, a ristabilire la fiducia attraverso il linguaggio immediato e primario del tatto.
L’esperienza per Clark non è mai estetica in senso tradizionale, ma profondamente relazionale: l’opera non esiste se non nell’incontro tra l’oggetto, il corpo e la psiche del partecipante. Il documentario Body Memory (1984), del regista Mario Carneiro, si concentra sulle sedute di “Structuring the Self”, il metodo di arteterapia ideato da Lygia Clark e al quale dedicò l’ultimo terzo della sua vita, dopo aver voltato le spalle al mercato dell’arte. In queste pratiche, il gesto artistico si trasforma in gesto di cura, e il rapporto estetico diventa un’esperienza di fiducia reciproca, di ricomposizione e di guarigione simbolica. Come la stessa artista dice all’inizio degli anni Sessanta, l’arte ha come obiettivo quello di combattere la spersonalizzazione e di dare all’uomo moderno una possibilità di conoscere sé stesso. Possibilità che Lygia Clark attraverso le sue opere offre specialmente a chi partecipa, prima ancora che a sé stessa.
Immagine di apertura: Lygia Clark, Estruturas de Caixa de Fósforos (Strutture di scatole di fiammiferi), 1964, pittura a guazzo, scatole di fiammiferi, © O Mundo de Lygia Clark-Associação Cultural, Rio de Janeiro; foto: Michael Brzezinski, collezione privata, Londra; per gentile concessione di Alison Jacques
