Affluenza record alle urne per il primo turno delle elezioni legislative francesi, con oltre il 65% degli aventi diritto al voto. Dalle prime proiezioni, il Rassemblement National di Marine Le Pen si posiziona in testa, con una percentuale che supera il 29% dei voti. Un risultato che conferma la crescita costante del partito negli ultimi anni e che la proietta come possibile protagonista del prossimo scenario politico.
Tuttavia la gauche non demorde. Una sconfitta, certo, ma non un colpo fatale. I secondi turni, come da tradizione francese, saranno decisivi e il fronte progressista è pronto a dare battaglia per evitare che l’estrema destra conquisti l’Eliseo.
La campagna elettorale, breve ma intensa, è stata segnata dal “coup de théâtre” di Emmanuel Macron, che ha sciolto l’Assemblea Nazionale in seguito alla sconfitta alle elezioni europee. Una mossa azzardata, che ha avuto l’effetto di riaccendere l’interesse per la politica e di spingere molti cittadini a tornare alle urne.
Manifesti elettorali hanno tappezzato ogni angolo del paese, comizi e confronti televisivi si sono susseguiti a ritmo serrato, mentre i cortei e le manifestazioni hanno animato le strade delle città. La propaganda, strumento inevitabile in ogni democrazia, ha fatto da sfondo a questa battaglia elettorale che si preannuncia decisiva per il futuro della Francia.
Il rapporto tra arte e potere è sempre stato complesso e conflittuale. I regimi autoritari hanno spesso cercato di censurare o strumentalizzare l’arte per i propri fini propagandistici. Tuttavia, gli artisti hanno sempre trovato il modo di aggirare la censura e di far sentire la propria voce, anche a rischio della propria libertà.
L’artista, dotato di acume e sensibilità, funge da testimone oculare del proprio tempo, cogliendone le contraddizioni, le ipocrisie e le sofferenze. Attraverso la sua opera, non solo riflette la realtà, ma la interroga, la sfida e ne propone una reinterpretazione critica.
Il mio ritratto eseguito da Manet? Davvero brutto, non lo possiedo, il che non mi addolora. Si trova al Louvre e io mi domando per quale motivo.
Georges Clemenceau, deputato dell’estrema sinistra francese, soprannominato il “Tigre della Francia”, non aveva gradito il ritratto che Édouard Manet aveva dipinto di lui. Eppure, quello sguardo penetrante e quella posa decisa, quasi arrogante, catturano l’essenza di un uomo che non piegava la testa di fronte a nessuno.
Manet, il maestro dell’Impressionismo, si distacca qui dalla sua tavolozza luminosa per dar vita a un ritratto austero, quasi cupo.
Per cogliere l’anima del “Tigre”, l’artista si avvalse di una fotografia di Wilhem Benque e forse di un piccolo ritratto su carta. La stesura pittorica è rapida, essenziale, quasi scarna, a tratti ricorda lo stile giapponese tanto caro agli Impressionisti.
Nonostante la sua “bruttezza” lamentata da Clemenceau, il ritratto di Manet coglie la vera essenza del politico: la forza, la determinazione, l’arguzia. Un’immagine nuda e cruda, senza fronzoli, che anticipa di quasi vent’anni i ritratti ufficiali del XX secolo.
Alcuni critici hanno visto nella forza espressiva del dipinto una sorta di sopraffazione sulla figura di Clemenceau. Quasi che Manet, nel ritrarre il “Tigre”, abbia dipinto se stesso. Ma la vera grandezza di quest’opera risiede proprio nel suo equilibrio: la potenza pittorica di Manet non annulla la personalità di Clemenceau, anzi la esalta. In questo ritratto i due protagonisti - l’artista e il suo soggetto - si fondono in un’unica, indimenticabile immagine.
Al di là del giudizio sprezzante di Clemenceau, il suo ritratto può essere assolutamente rivisto come una sorta di attuale manifesto elettorale, dove un’immagine potente si sostituisce all’individuo.
Sotto lo scalpello burlesco di Honoré Daumier, il principe-presidente Luigi-Napoleone Bonaparte si tramuta in Ratapoil, marionetta grottesca del potere. La statuetta, carica di un’ironia pungente, ci consegna l’immagine di un uomo anziano e magro, piegato sotto il peso di ambizioni smisurate.
Veste gli abiti eleganti dell’Ottocento, quasi a volersi mascherare da gentiluomo, ma la caricatura di Daumier ne svela l’essenza cinica e opportunista.
Il viso, sebbene quasi accennato, è dominato da un paio di baffi a punta, quasi artigli, e da un pizzetto che accentua l’aria da capretto astuto. L’atteggiamento è quello di chi ostenta sicurezza, anzi, di chi sbeffeggia con supponenza il mondo circostante. La figura, pur stante e apparentemente solida, si appoggia con insistenza al bastone da passeggio, come a cercare un sostegno che tradisce la sua fragilità interiore.
La redingote, il classico soprabito ottocentesco, diventa qui simbolo di un potere usurpato, mentre il cappello a cilindro, un tempo emblema di classe sociale, si posa grottescamente sulla testa calva di Ratapoil. L’eleganza ricercata si tramuta in goffaggine grottesca, sottolineata dal gesto teatrale di sollevare i lembi dell’abito, come a volersi pavoneggiare di una ricchezza fasulla.
Ma è lo sguardo, obliquo e sprezzante, a rivelare l’anima nera del personaggio. Un’occhiata gelida che scruta l’osservatore dall’alto in basso, svelando la superbia e il disprezzo di chi si crede superiore al popolo che opprime. Ratapoil, con la sua maschera grottesca, incarna la feroce critica di Daumier ai regimi autoritari, smascherandone la vacuità morale e l’avidità di potere. Le mani, goffe e sproporzionate, impugnano un bastone che assume il valore di uno strumento di oppressione. Le scarpe, sformate e consunte, tradiscono una vita di soprusi e menzogne. E poi c’è quel nomignolo, “Ratapoil”, letteralmente “ratto scorticato”, che riecheggia come un monito inquietante, svelando la vera natura di questo losco individuo.
Ratapoil, con la sua maschera grottesca, non è solo una caricatura di un singolo individuo, ma un ritratto impietoso di un’epoca corrotta e oppressiva.
Opere d’arte che raccontano il potere. Il potere e le sue nefandezze, ammonendoci sui pericoli dell’autoritarismo e della propaganda. Un monito che, ancora oggi, risuona con drammatica attualità.
Immagine di apertura: Édouard Manet, Ritratto di George Clemeceau, 1879-90