Il futuro dell’arte

Attraversiamo un momento di grande crisi, non solo economica o sanitaria, ma anche culturale. Per l’arte potrebbe essere l'occasione per ritrovare quello spessore che, forse, con il passare del tempo è andato perduto.

Oggi l’arte dovrebbe riprendersi quel ruolo che aveva un tempo: maestra capace, narratrice attenta, simbolo di meraviglia e luogo di sorpresa, il trait d’union per la filosofia, la storia, la letteratura, sapendo interpretare magistralmente un’attualità complessa. L’arte dovrebbe tornare ad aver presente quell’idea di bello che molti hanno dimenticato e i più forse mai considerato. 

Essa raccontava la storia, immortalando donne e uomini potenti o  denunciando la vita di quelli più fragili. Proclamava eventi futuri o descriveva quelli passati. Tutto quello che oggi non fa più.  

Troppo semplice e mal articolata, la pittura e la scultura rispecchiano una cultura contemporanea che ha perso ed allontanato un passato ricco di ogni cosa.

Artisti di ogni luogo affamati di una novità che manca e collezionisti pronti a renderla un bene rifugio in tempi di difficoltà. 

È sempre stato fatto, è la storia dell’umanità che lo dice, il motivo economico dell’arte ha salvato tante situazioni, alle volte fallimentari. Dall’acquisto, fatto magari quattrocento anni prima, alla vendita, chi poteva immaginare che sarebbe stata la salvezza dei posteri? Ma l’arte non è economia, non è solo sistema produttivo, l’arte è fuga dal mondo, ricerca emozionante, angolo di piacere, distante da quella società divenuta oggetto di contesa. Essa deve riprendersi la sua autorità e spurgarla di quel carattere di oggetto in vendita che oggi rappresenta o tende a rappresentare.

Foto Valentina Petrucci

Spesso l’arte, sopratutto quella del secondo novecento, ha rifuggito il bisogno, il mondo e la vita stessa, facendosi gioco intellettualistico esangue, rinunciando del tutto a proporre  bisogni e desideri, lasciandoli in mano ad un mercato quasi illogico, ritirandosi nell’oasi misteriosa di un intellettualismo, divenuto ormai territorio neutrale e libero, perché vi si può dire quello che si vuole, continuando a consumare, facendo così un grande favore al mercato unico forgiatore di bisogni. 

Il grande capitalismo favorisce una cultura, e quindi un’arte, lontana dai territori del bisogno del corpo, della materia, del sentimento, perché così è libera di spadroneggiare in essi e con la coscienza  a posto per giunta, perché ci si è ammantati di una cultura che nulla può sull’aspetto più profondo ed al tempo stesso più economicamente rilevante dell’uomo.

In un tempo di crisi finanziaria, sanitaria, etica, può l’arte tornare a svolgere il suo compito? Ebbene sì. Cambieranno le nostre priorità, la nostra vita, le nostre modalità d’acquisto e di consumo, perché allora non approfittarne per investire su quello che, in questi mesi di forte crisi, ci siamo accorti sia venuto meno nel corso degli anni?

L’artista dei secoli passati, ha sempre avuto la lungimiranza di adattarsi al tempo che viveva o spostarsi geograficamente per cercare un luogo a lui più adatto, dove la sua maestria poteva riscuotere maggior successo e quindi venire più apprezzata. Una scelta dimostratasi sempre vincente. Lo stesso dovrebbe accadere oggi.

Ma la manovra è ben più ardita. Perché non spostare i nostri bisogni, le nostre scelte? La questione è fondamentalmente sociale. Gli antichi mecenati, molto più che collezionisti, sceglievano i propri artisti non solo per il loro nome, che di certo era una cassa di risonanza per la loro collezione, ma si affidavano a chi, secondo il proprio gusto e le proprie esigenze, potesse avvicinarsi di più alle loro richieste, ai loro bisogni.

Quali erano i bisogni di un tempo nell’arte? Mimesi: rappresentazione della realtà.  

Roland Barthes, in Critica e Verità afferma: “Il verosimile non corrisponde fatalmente a quanto è stato (ciò è dominio della storia) né a quanto deve essere (questo riguarda la scienza), ma semplicemente a quanto il pubblico crede possibile e che può essere del tutto differente dalla realtà storica o dalla possibilità scientifica. Aristotele fondava così una certa estetica del pubblico; e se oggi l'applicassimo alle opere di massa, riusciremmo forse a ricostruire il verosimile della nostra epoca; tali opere, infatti, non contraddicono mai quello che il pubblico crede possibile, per quanto impossibile sia, storicamente e scientificamente”.

Ecco, abbiamo necessità di cultura, di mostrare la realtà in cui viviamo che non è solo quella televisiva o pubblicitaria, abbiamo bisogno d’investire sulla scuola, sulla ricerca e sopratutto di ripartire dal centro della società: l’individuo.

Sarà tutto da ricostruire e riformare, sarà un’occasione unica e forse nuova, la storia infatti non ha mai incontrato una situazione simile da cui poter imparare o prendere spunto e sopratutto l’arte non si è mai trovata di fronte a questo bivio. Quantità o qualità? Un’ossessione puntualizzata e cristallina. Sarà ancora così necessario acquistare o creare strani oggetti d’uso comune rimodulati al fine di diventare opere d’arte? Sarà ancora lecito presentare al mondo ricche campiture monocromatiche su tele così grandi da chiederci se esistano ancora appartamenti in grado di ospitare dimensioni a di poco colossali? Nulla ha più un modulo, nulla ha più un fine.

Ricominciare a parlare del mondo, per l’arte, significa ricominciare a trasmettere desideri. Ormai è chiaro che il desiderio è la parte più profonda ed al tempo stesso più concreta, e quindi economica, della nostra vita.

Immagine di apertura: foto Valentina Petrucci

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