L'installazione di Glenda León è uno dei numerosi interventi che in occasione di questa Bienal de La Habana troviamo disseminati per la città. Può sembrare un fatto scontato, ma non lo è. A sottolinearlo, è il curatore stesso, Jorge Fernandez Torres, che – nell'ambito di una conversazione informale – evidenzia il significato di apertura. Lo prova il fatto che, per la prima volta, la mostra non risulta più concentrata in un'unica sede, come è sempre stato nelle edizioni scorse, ma si è invece espansa in numerosi punti della città: edifici, ma anche strade, piazze, il lungomare. A questo va aggiunto il fatto che la biennale vede un numero notevole di presenze internazionali, anche occidentali: un fenomeno nuovo per l'isola, che, fino a poco tempo fa, a livello istituzionale, resisteva a contatti e influenze ostentando autosufficienza.


Il Gran Teatro ospita invece le opere di artisti di provenienza variegata. Opere poco legate tra loro, ma in molti casi interessanti; c'è, per esempio, la videoanimazione di Mona Marzouk, che prefigura un futuro in cui uomo, animale e macchina si ibrideranno fino a costituire un tutt'uno; o l'installazione di Rafael Lozano-Hemmer, una sorta di ritratto biometrico sotto forma di apparato respiratorio che si attiva al ritmo di 10.000 volte al giorno, il ritmo normale di un adulto. O ancora il lavoro Apuntes en el hielo di Celia & Yunior: un video e una pila di copie di una tesi di dottorato in sociologia, sulla società cubana: una tesi basata su una ricerca approfondita, circonstanziata, rigorosa, che fornisce una quantità di informazioni sulle quali poter basare un processo di cambiamento… Se solo esistesse una volontà di cambiamento. Purtroppo, invece, i fascicoli restano lì, inerti, ancora imballati.
Nata nel 1984, la Biennale dell'Avana si presentò inizialmente come piattaforma in cui presentare l'arte di aree geopolitiche considerate allora non centrali, da Cuba stessa con tutta l'area caraibica, all'America Latina, all'India.





