Art Basel, vista dal di fuori

Una selezione di opere e artisti tra i più significativi di questa edizione 2011.

Una serie di BMW, lucide, nere e con i vetri posteriori oscurati, parcheggiate all'ingresso a disposizione dei V.I.P., una tribù molto '80 e oggi molto imbarazzante, ricorda che Art Basel è un luogo dedicato agli investimenti in valuta più che a quelli culturali. Le auto diventano così, e loro malgrado, quasi un'installazione con la quale la casa automobilistica descrive l'evento come un luogo aperto ma inaccessibile alla gente della strada, che può limitarsi a qualche commento sulle opere, osservate da un punto di vista esterno all'arte contemporanea. Essa diventa allora quel recinto per iniziati raccontato da Daniel Buren in Autour du retour d'un détour – Inscriptions che il celebre autore parigino colloca poco distante dalle auto, all'ingresso di Unlimited.

Tra i maggiori esponenti delle neo-avanguardie artistiche della fine dei '60 e '70, Buren indaga i rapporti fra l'opera d'arte, il luogo in cui prende corpo e lo spettatore, valendosi di uno strumento visivo invariabile: l'alternanza di strisce verticali bianche e colorate di 8,7 cm.
Il lavoro di Buren a Basilea, è una grande arena rossa, di forma quadrata e delimitata dalle stesse transenne che furono usate tra il 1985 e il 1986 al Palais Royal, durante la costruzione di Les Deux Plateaux, una delle opere più conosciute dell'artista. Essa consiste in una serie di colonne poligonali a strisce bianche e nere, poste all'interno del cortile del noto monumento parigino. Durante i lavori, chi attraversava Palais Royal poteva osservare il cantiere che fu transennato con lastre di compensato poco più alte di un metro, e partecipare così al dibattito su come l'arte contemporanea si potesse integrare con quella antica, incidendo o scarabocchiando delle frasi sul lato esterno della staccionata. Quelle lastre, coperte di scritte all'esterno e contraddistinte dalle strisce bicolore all'interno, vennero usate due anni più tardi a Le Magazin, dove l'artista creò un percorso che riprodusse quello di Palais Royal, poi in Galleria Continua nel 2010 e infine qui a Basilea, dove un recinto in compensato separa il pubblico da uno spazio quadrato colore "red carpet".
In alto: Daniel Buren, <i>Autour du retour d'un détour – Inscriptions</i>, veduta dell'installazione; qui sopra: Erik Van Lieshout, <i>Commission</i>, veduta esterna del padiglione.
In alto: Daniel Buren, Autour du retour d'un détour – Inscriptions, veduta dell'installazione; qui sopra: Erik Van Lieshout, Commission, veduta esterna del padiglione.
Poco distante Erik makes Happy o Last Chance scritte con caratteri cubitali, fluorescenti e bordati da un secondo colore, con gusto un po' discount, decorano il padiglione che contiene Commission. Una Mixed media installation che l'artista olandese Erik Van Lieshout trasforma nella cronaca sulla povertà della politica, dell'arte e della società contemporanea. A Van Lieshout era stato commissionato un film su Zuidplein, un centro commerciale a sud di Rotterdam, costruito nel 1968 come esempio di quella visione utopica che vedeva nel futuro della città benessere e armonia. Tuttavia la crisi precipitò nella povertà l'area a Sud di Rotterdam e il centro commerciale, ormai luogo di rifugio di poveri e disoccupati, iniziò a diventare un posto veramente poco frequentabile. Troppo a Sud per venire compreso negli interventi di Koolhaas, Siza e Foster, il Zuidplein fu allora oggetto dell'attenzione del proprio management. Nel tentativo di migliorarne l'immagine, puntò sulla sicurezza facendo installare 150 telecamere e obbligando i bambini a non correre. Qui Van Lieshout apre un temporary shop che diventa un luogo per parlare con la gente e registrare i loro commenti che diventano il ritratto del luogo e dell'artista, sospesi tra scetticismo e ottimismo.
Ritratto di Emre Hüner.
Ritratto di Emre Hüner.
Il fallimento dell'utopia viene raccontato in modo raffinato anche da Emre Hüner. L'artista nasce in Turchia, la repubblica, risultato della deriva dell'Impero Ottomano dove trovò terreno fertile il Kemalismo di Ataturk. Padre della Patria, impose la stessa bandiera a popoli con diversa lingua, cultura e religione come i curdi o gli armeni. Conseguentemente parte del popolo curdo si trova ora al di qua del confine, dove non essere turchi è reato, tanto che Leyla Zana, esponente politico curdo, trascorse parecchi anni della sua vita in carcere, per aver osato usare la propria lingua in una seduta parlamentare.
Trentaquattrenne, Hüner si forma a Brera e vive ad Amsterdam, ospite del Rijksakademie van Beeldende Kunsten. Ad Art Basel ha presentato Quixotic, il cui termine tratto da Don Quijote mette in relazione gli atti "inutilmente eroici del protagonista del romanzo di Cervantes con le utopie del Novecento". A dimostrazione della tesi secondo la quale "le utopie di massa sono modelli che non hanno mai funzionato" Hüner espone, esibito su un piedistallo costruttivista, il modello della torre dell'acqua di Fordlândia, invaso da forme scultoree colorate e zoomorfe. Accanto a essa, una scultura in ceramica rappresenta un grande nido di insetti che è la copia fedele di quelli che invasero, dopo il suo abbandono, la "Crespi d'Adda" imposta da Ford nella foresta amazzonica. Fordlândia diventa così simbolo del fallimento di un'utopia importata a dispetto dell'antropologia, della geografia e, in ultima analisi, della natura stessa contro la quale s'infransero il taylorismo e la visione del grande industriale americano.
Il fallimento delle utopie, a Occidente come a Oriente, il rapporto con lo spazio pubblico tra i temi delle opere viste a Basilea
Kris Martin, <i>Festum II</i>, chiesa di Sant'Albano.
Kris Martin, Festum II, chiesa di Sant'Albano.
Anche l'artista lituano Deimantas Narkevicius in Ausgeträumt descrive il probabile fallimento di un sogno. Quello del successo internazionale di una band di teenager lituani, di cui fa parte anche suo figlio, che sono i protagonisti della storia proiettata ad Art Basel. La loro musica, romantica e fatta in casa, diventa la colonna sonora di un lento indugiare della macchina da presa su un'architettura post-socialista, coperta di neve. Nel ritrarre l'innocenza naïf di questo gruppo di adolescenti, che inseguono le proprie ambizioni, senza curarsi della probabile inutilità dei loro sforzi, Narkevicius racconta anche di quando, anch'egli adolescente, sognava di diventare un artista, in un'Unione Sovietica alla deriva.

Non meno raffinata e altrettanto intima e poetica è "Kreppa Babies, 2010" la videoinstallazione con la quale i Masbedo, attraverso cinque schermi, documentano la storia della società islandese. Ritratti dal duo torinese come una sorta di "grande famiglia", gli islandesi hanno vissuto in modo traumatico i recenti disordini e i conseguenti scontri con la polizia, sintomo dell'improvviso malessere sociale e conseguenza immediata della crisi economica. I Masbedo, che hanno vissuto nell'isola a cavallo della crisi, esplorano con la telecamera come gli antichi valori della cultura islandese, legata alla terra e a un remoto paganesimo, lasciarono via via il posto a valori più effimeri di matrice 'occidentale', nel contesto di un benessere raggiunto forse troppo velocemente all'inizio del Novecento. Il film, il cui titolo significa appunto "I bambini della crisi", termina con un lungo piano sequenza su uno di loro. Una bambina. Il suo sguardo è illuminato dalla stessa luce di una di quelle torce usate dalla polizia durante gli scontri ed esprime un silenzioso grido di aiuto che attraverso occhi spalancati sul nulla, si espande ben oltre la storia e i confini dell'Islanda.
Cerith Win Evans: <i>I call your image to mind, 2010</i>, veduta dell'installazione.
Cerith Win Evans: I call your image to mind, 2010, veduta dell'installazione.
L'arte contemporanea tuttavia è anche altro. E allora emoziona il modo in cui Festum II, i coriandoli d'oro che Kris Martin sparge sotto le icone bizantine e lungo l'intera navata centrale di Sant'Albano, fondono indissolubilmente sacro e profano con un solo semplice gesto, descritto da una parola latina. Divertono invece I call your image to mind, 2010 il "Calder sonoro" di Cerith Win Evans o Unconscious praticamente un "Mondrian quasi Halley" animato e scolorito di Ernst Caramelle consiste di una finestra aperta su un muro dipinto con le ovvie campiture di colore dalle forme geometriche, e un paio specchi che ne rifrangono altre dipinte sulla parete opposta, non visibile. L'opera cambia ogni volta che ci si sposta e per capire come funziona basta sporgersi dalla finestra. Proprio come si dovrebbe fare ad Art Basel.
Pierfrancesco Cravel
Ernst Caramelle, <i>Unconscious</i>, installazione.
Ernst Caramelle, Unconscious, installazione.

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