Dal White Cube nel centro di Londra o Gagosian a Chelsea fino alla Arario Gallery di Seul, i galleristi stanno sperimentando la stessa frenesia che ha investito i musei un decennio fa, competendo paradossalmente coi programmi, con i bilanci e le collezioni dei musei stessi. Il mondo dell'arte ha dato una pericolosa sterzata verso l'avidità, indebolendo il ruolo delle istituzioni pubbliche per offrire contenuti sgravati dal timore di mettere a repentaglio l'afflusso del pubblico e l'attenzione dei media. E se l'ambizione in campo culturale ha avuto un ruolo nel fondare importanti lasciti e creare opzioni per le sfide future, oggi sembra funzionare solo se produce chiacchiere da rotocalco e lo sfarfallio della celebrità. Forse l'icona architettonica, così insistentemente al centro del palcoscenico in questo inizio secolo, è stata semplicemente uno strumento per liberare la frustrazione di celebri architetti intrappolati nelle sabbie mobili della politica degli anni Settanta, ma anche quella di direttori di museo che da creatori di contenuti aspiravano a diventare produttori di pettegolezzi e copertine di rivista. La sfida del museo, nel tornare alla sua origine prestando orecchio a una crescente richiesta di idee più che di facce, è evitare di essere considerato un improbabile 'salotto' in cui celebrità di ogni campo possano mescolarsi incestuosamente per valutare quanto la loro ambizione culturale possa trasformarsi in consistenti introiti e come la loro presenza possa sostituire, temporaneamente, l'aura di opere d'arte umili e misurate. Il nuovo New Museum rappresenta un segnale in questa direzione, un nuovo emblema per un vecchio modello di istituzione culturale. Ma mentre, grazie alla rete, la comunicazione tra persone ha conosciuto una rivoluzione simile a quella innescata da Gutenberg, gli spazi pubblici di musei, teatri o club sembrano legati inesorabilmente a vecchi modelli.
Il bisogno di essere sperimentali o underground, tipico degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, è stato sostituito dall'obbligo di entrare immediatamente a far parte del sistema. La gestione e le strutture economiche, a partire dal MoMA fino all'Artist's Space, operano secondo lo stesso metodo e seguono un identico schema. Nessuno sembra sentire il bisogno o la necessità di fare un balzo verso un nuovo modello operativo. Paradossalmente, il nome che negli anni Ottanta era associato al prototipo del mercante, al lato oscuro dell'arte, Jeffrey Deitch, oggi rappresenta forse l'interprete più interessante e ibrido del suo campo, capace di mescolare in maniere improbabili il mercato alla sperimentazione underground e a programmi interdisciplinari, usando spazi diversi come piattaforma per proposte differenziate, a volte guidate dal mercato altre volte basate semplicemente sulla sfida della scoperta. La chiave del lavoro di Deitch, considerato un imprenditore di successo, è stata affrontare il fiasco con lo stesso entusiasmo del successo. Spostandosi da Soho a Long Island City, Deitch Projects sta tracciando i contorni della nuova città come nessun altro. Naturalmente l'Europa rappresenta un caso del tutto diverso, che non può esser paragonato alla scena artistica di New York. Tuttavia anche la scena europea è ancorata a modelli sorpassati: le molte Kunsthaus, Kunsthalle, ICA e così via, agiscono spesso nei confronti del sistema in generale e del mercato in particolare con un'attitudine confl ittuale tipica degli anni Settanta. Tale manicheismo programmatico appare decisamente datato e non affronta alcuna discussione riguardo a nuove maniere di presentare, discutere ed esplorare le differenti comunità artistiche e la loro produzione.
Se un tempo il New Museum costituiva la risposta alle limitazioni conservatrici del Whitney Museum, oggi non vi è alcuna istituzione culturale che metta realmente in discussione il sistema. Oppure, se lo fa, come in Europa, finisce per trasformare l'istituzione artistica in un club, nella filiale di uno sportello per la disoccupazione o in un centro di studi teoretici. Così, se negli anni Sessanta e Settanta essere rifiutati dal sistema era la scintilla d'avvio per operazioni innovative e audaci, oggi tutti, dagli artisti ai giovani curatori e ai galleristi emergenti, paiono terrorizzati di essere respinti dall'establishment. Se un tempo il rifiuto apriva una carriera, oggi esso è visto come puro e semplice fallimento. In tali circostanze, è difficile immaginare all'orizzonte la comparsa di luoghi nuovi o istituzioni innovative. La prosperità, o almeno la sicurezza economica, ha prodotto un'epoca di offerte molto stabili. Quella di cui siamo testimoni è una generazione di giovani, rampanti e pavidi strateghi del marketing. Se gli anni Settanta sono stati violentati dalla cultura dello slogan, il XXI secolo è sedato da una cultura da copyrighter. Il risultato di questo stato di cose sono musei che, lungi dall'essere spazi per i protagonisti della cultura del futuro, somigliano ai magazzini di uno spedizioniere o di una casa d'aste.