Le case progettate da Tadao Ando non assomigliano a case: è un fatto noto tra i conoscitori dell’architettura. Questi si dividono tra chi fa corrispondere l’incongruenza formale con una distanza essenziale – “nessuna ‘dimora’ offrono queste case, nessun ricovero che non somigli spaventosamente a un rifugio atomico”, scriveva Marco Biraghi nel 2009 – e chi invece contrappone un’apparenza anti-domestica, o più ampiamente anti-umana, a una sostanza di segno opposto. “Sembrano lontani dall’uomo, eppure gli sono molto vicini”: così Kazuyo Sejima, voce di proverbiale sintesi, commentava gli edifici di Ando su Domus nel 2020.
Al di là delle interpretazioni, la casa è un asse portante della ricerca dell’architetto giapponese. La recente Villa a Ginza, Tokyo, pied-à-terre di una coppia di origine asiatica che vive in Europa, prosegue una genealogia ricchissima, che affonda le sue radici nelle case-bunker che Ando realizza ad Osaka, sua città natale, nei primissimi anni Settanta.
In un piccolo lotto – 8,5 metri di fronte strada per 12 di profondità – la Villa a Ginza si verticalizza in una torretta su sette livelli. La hall d’ingresso occupa il seminterrato e il piano terra, su cui affaccia la camera padronale al primo piano. Il secondo livello accoglie la zona giorno, mentre al terzo e al quarto piano si distribuiscono le stanze dei bambini e degli ospiti. L’ultimo piano è una grande piattaforma en plein air, aperta ma in gran parte coperta dal tetto vero e proprio. Questo elenco sintetico suggerisce l’esistenza di diversi ambiti funzionali e quote di riferimento, ma non rende conto dell’elevato livello di permeabilità verticale dell’edificio.

Come spiega Ando, “ogni piano incorpora vuoti di forme e posizioni uniche, che si interconnettono verticalmente per permettere alla casa di respirare e per creare una sequenza spaziale dinamica, ricca di volume e profondità”. Altezze doppie o multiple caratterizzano gli interni, ma anche la spessa intercapedine ‘fredda’ della facciata sud, che separa le loro pareti vetrate dall’involucro architettonico.
La produzione di Ando, autore anti-eclettico, è un corpus coerente in cui ricorrono soluzioni tipiche, perfezionate e variate nel tempo. La Villa a Ginza non fa eccezione. Vi si ritrova il suo dispositivo più riconoscibile, il paramento di cemento a vista, modulato sulla dimensione del tatami, che è sia prospetto urbano che parete interna. La terrazza in quota – Sky Garden, nella definizione del suo progettista – osserva il cielo attraverso un lucernario circolare, che ripropone una geometria prediletta da Ando e conferma le risonanze tra le sue ricerche sulla luce e la percezione e quelle di movimenti artistici come il Light and Space americano degli anni Sessanta.
Più in generale, è caratteristica di Ando l’adesione a un radicale minimalismo: la casa si priva di decorazioni, riduce al minimo anche i suoi arredi e si limita a esistere come infrastruttura spoglia e silenziosa. La scelta è etica, piuttosto che estetica, e traduce una concezione dello spazio domestico come unico rifugio possibile contro il sovraccarico di oggettti e immagini dell’epoca contemporanea.
Il progetto della casa, soprattutto di una dimora esclusiva per happy few, non ha un valore salvifico per l’umanità, ma può almeno ambire a proteggere i suoi abitanti dalle sovrastimolazioni del tardo capitalismo. Così, l’imperturbabile casa-fortezza emerge come un’eccezione nel fragile paesaggio in trasformazione accelerata della città giapponese. L’introduzione dell’elemento naturale, nella forma della vegetazione che risale sulle superfici interne dei muri perimetrali fino a ricoprirle interamente, enfatizza il carattere permanente dell’architettura. Come la recente Nakanoshima Children’s Book Forest di Osaka (2020), la Villa a Ginza è un monumento solido, ma umile, disponibile a dissolversi tra i rampicanti: la spoglia casa minimalista del presente si tramuterà forse nella più rigogliosa delle rovine di un futuro lontano.